Arte italiana

Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2004 - edizione 3

Nicomèdes salì il suo 294° scalino e rimase a bocca aperta. Non già per i suoi 143 chili di peso che minacciavano di lasciarlo stramazzare a terra ogni giorno di più in quella settimana di viaggio infernale, ma per lo stupore infinito che lo investì di fronte allo spettacolo che si apriva sotto i suoi occhi.
Prati verdi grandi come fazzoletti, costruzioni rosso terracotta come scogli fra le colline, carrozze e dame e gentiluomini minuscoli si agitavano e vagavano come insensati sulla faccia della terra, lontano, immensamente lontano. Eppure era salito tante volte sulla Tour Eiffel, solo, all’alba, quando lentamente l’aurora trafiggeva la struttura scheletrica di ferro e il baratro dell’altitudine scivolava dolcemente lungo la curvatura fino a sprofondare alla base. Qui pareva molto diverso, una questione di prospettiva adrenalinica, non voluta dagli artisti italiani che tuttavia avevano dato vita a un’arte ribelle e spontanea che aveva dell’equilibrio miracoloso.

Nicomèdes si sporse ipnotizzato, non s’accorse della polvere che cadde dalla balaustra di protezione sotto la presa della sua mano nè gli uccelli che presero il volo abbandonando il nido in una finestra bifora, il suo sguardo era perso nell’aria che lo circondava, ovunque, nessun piano verticale a legarlo a terra, solo cielo terso e libero, come volare, finalmente leggero. Non più fatica, dolore, rabbia per il fiato corto dopo solo pochi metri di corsa o per orme profondamente incise su una spiaggia vista sempre solo al tramonto. Il sole l’abbagliò, oltre l’antico parapetto, sentiva sotto di sè solo la sensazione vibrante dell’aria, poi uno strappo. Un secondo, un terzo, in rapida successione dei tiranti, poi un suono delicato ma vasto, come il canto di una balena e si librò inghiottito nell’aria e fu lieve come nessuno fu mai. E fu leggenda.

 

Nicomèdes Tours
Paris 2047 - Pisa 2064
R.I.P.

Ugo Fressa

Esisto e vivo.