Tornavo a
casa.
Percorrevo le contorte strade della costiera. Mi avevano raccomandato di andare piano;
nonostante avessi bevuto poco, sapevano che bastava una piccola distrazione e lauto
sarebbe precipitata giù tra le rocce che finivano rapide a mare.
Si preoccupavano. Erano molto cari.
Il cielo quella notte era di un blu chiarissimo: merito della morbida luce lunare che mi
rivelava il paesaggio; i suoi raggi si riflettevano addirittura sul portachiavi metallico
che come un pendolo ancorato al cruscotto, si animava ad ogni curva. Era un regalo che
avevo avuto da piccolo, un modesto ricordo di un caro zio ormai defunto.
La festa era stata piacevole. Avevamo ricordato, come facevamo ogni tanto, tutte le
avventure vissute insieme: le giornate trascorse nellallegra incoscienza della
giovinezza; le paure condivise negli anni della formazione.
Avevamo discusso delle nostre letture preferite e, con una punta di orgoglio, avevamo
parlato dei nostri successi professionali, grazie ai quali ci eravamo costruiti una vita
lontana dal <<solito e monotono grigiore borghese>>, espressione un pò
ingenua e romanzesca che usavamo per definire tutto ciò da cui eravamo sempre fuggiti.
La strada scorreva morbidamente. Io mi cullavo nei dolci ricordi appena condivisi.
La nera montagna mi scorreva a fianco; lauto si insinuava tra le curve. I guizzi
argentati della luna animavano prima uno spuntone di roccia, poi un cespuglio troppo
rigoglioso; e io mi facevo incantare da quella danza degli spiriti.
La luna mi era di fronte, lucente, sfavillante. Con un balzo cercai di afferrarla. La sua
figura mi veniva incontro e si ingrandiva a dismisura. Quasi non sentivo più le lamiere
contorcersi e divorarmi. Urlai e chiusi gli occhi.
Mi risvegliai donna. Le coperte mi avvolgevano fin quasi a stritolarmi. Sentii la voce di
mia madre salvarmi da quel brutto sogno. Era tardi. La scuola mi aspettava...