Due si
trovavano già lì, cadaveri riversi sul pagliericcio come manichini smontati. Erano
legati mani e piedi. Dalla bocca spuntavano le falde dei fazzoletti che li avevano
zittiti, tappi di stoffa per bottiglie in frantumi.
Il terzo lo trascinò per i piedi, lasciando che il corpo squarciato disegnasse sul
pavimento una macabra firma di sangue.
Il quarto invece lo portò in spalla: era leggero, quello. Lo gettò in un angolo, e il
rumore fu un tonfo sordo come un pugno nel muro.
Dopo qualche giorno arrivarono gli altri due: pezzi alla rinfusa dentro a borse scure.
Egli si chiuse la porta alle spalle, aprì le sacche e scaraventò le membra per la
stanza. Pose in bella vista soltanto le teste, una accanto all'altra sul davanzale della
finestra.
L'ultimo, il più importante, arrivò malconcio ma sulle proprie gambe. Lo guidò
cingendogli la vita come fosse un amico ubriaco. Lo spinse dentro puntandogli una lama al
fianco. Senza cortesia lo sedette al centro del mattatoio. Gli tolse il bavaglio e,
sollevandogli il viso con la testa di un martello, disse:
"Guarda! La mia è senza dubbio la migliore. Ho vinto. Dillo, che ho vinto!"
Il moribondo, blu e viola per gli ematomi, con estremo sforzo aprì gli occhi a fessura.
Vide i cadaveri delle altre vittime. Li riconobbe. Comprese il gioco del folle. Nella
speranza di assecondarlo - di guadagnare la vita - attraverso labbra tumefatte, con voce
bucata dal dolore, annuì:
"Hai vinto".
Il martello franò sulla testa dell'ultimo entrandoci senza bussare.
Cervello e sangue come fuochi d'artificio.
L'assassino sorrise compiaciuto. Intinse le mani nel rosso e nel grigio dell'ammazzato, e
su un lembo di parete scrisse il titolo della sua storia dell'orrore: "La fine della
Giuria".