Quel giorno
avrei dovuto dare il mio esame di matematica. Era inverno e faceva molto freddo. Non so
bene per quale motivo successe, ma fatto sta che sembrava che il destino avesse deciso che
io mi sarei dovuto svegliare in ritardo. E infatti, quando guardai la sveglia, non ebbi il
tempo per stupirmi dell'ora tarda che ero già in piedi, sveglio, con la camicia in una
mano e i pantaloni nell'altra. Non ebbi a disposizione né il tempo di farmi una doccia
né di fare colazione; ero troppo in ritardo.
Vestito di fretta e alla bell'e meglio, mi chiusi la porta di casa dietro le spalle, corsi
a rotta di collo giù per le scale e poi via in strada, verso l'università. Guardando
l'orologio pensai che se avessi continuato a correre a quella velocità sarei riuscito ad
arrivare in tempo, ma se due giorni prima i tubi dell'olio dei freni della mia macchina
non avessero deciso di rompersi costringendomi a portarla dal meccanico, forse sarei
riuscito a ripararmi da quella pioggia scrosciante e tremenda che cominciò a cadere giù
dal cielo mentre mi trovavo a metà strada. Gocce grosse come acini d'uva cominciarono
infatti a precipitare dalle nuvole scure che sovrastavano Milano martellando furiosamente
sulla mia testa e quando riuscii finalmente a trovare un riparo di fortuna sotto la tenda
parasole di un negozio i miei vestiti erano già completamente inzuppati. Guardando nella
direzione dell'università capii che se non volevo prendermi una polmonite era meglio che
rimanessi dov'ero.
Lo scrosciare incessante della pioggia, il bagliore del fulmine che illuminava il cielo e
il fragore sordo del tuono che rimbombava in lontananza erano chiari segni che il
temporale non si sarebbe placato presto. Decisi di restare sotto la tenda, al sicuro,
consapevole che ormai l'esame era affogato nella pioggia che non smetteva più di scendere
giù.
L'amara consapevolezza che notti e notti trascorse insonni sui libri alla luce di una
lampada da tavolo erano appena state mandate in fumo alimentava in me una rabbia
incontenibile che andava crescendo esponenzialmente ogni minuto di più che trascorrevo in
quella condizione. Infine, quando il rumore con cui le gocce scendevano in picchiata sulla
tenda sembrò martellarmi il cervello, la mia furia esplose totalmente. Incurante del
fatto che stavo per asciugarmi e privo di qualunque razionalità, uscii da sotto la tenda
e cominciai senza alcun senso a prendere a calci la pioggia. Tiravo calci violenti e
imprecavo incoscientemente senza preoccuparmi minimamente del fatto che qualcuno potesse
sentirmi, tale era la mia rabbia. Per fortuna non c'erano molte persone in strada,
altrimenti mi avrebbero preso sicuramente per pazzo.
Ma il vero motivo per cui non riuscirò mai a dimenticare quel giorno non fu la semplice
assenza ad un esame universitario; mentre sfogavo la mia furia in modo irrazionale, vidi
delinearsi nella cascata d'acqua sei o sette figure, femminili ad un primo esame, che si
avvicinavano veloci e minacciose verso di me. Non erano delle donne vere e proprie, era
come se la traiettoria delle gocce d'acqua disegnasse quelle sagome inclinandosi
nell'aria, scivolando come su delle figure invisibili. Il passo veloce e spedito dei loro
piedi non emetteva alcun rumore né sollevava schizzi. La pioggia non rimbalzava su di
loro come avrebbe fatto con un essere materiale, ma nemmeno passava loro attraverso come
invece faceva la luce. Pareva, insomma, che quegli esseri e la pioggia fossero una cosa
sola.
Appena vidi quelle figure mostruose lo spavento e la sorpresa della loro visione mi
indussero a tirare l'ennesimo calcio in maniera talmente disordinata che scivolai su un
fianco, cadendo rovinosamente sull'asfalto bagnato. Quando quegli esseri si portarono a
pochi metri da me potei vederli spalancare le loro bocche antropomorfe in un'espressione
talmente raccapricciante che ancora oggi non smette di formarsi davanti a me quando chiudo
gli occhi. Mentre il terribile ghigno andava distorcendo il loro volto invisibile, i
mostri di pioggia protesero verso di me le loro lunghe braccia terminanti con orrende mani
artigliate. Queste terminavano a loro volta con dita la cui flessione era talmente arcuata
e minacciosa che, unita alla parziale visibilità di quegli esseri, forniva ai miei occhi
un'immagine così ripugnante da farmi provare lo stesso senso di ribrezzo che avrei
provato se avessi visto un orrendo scarafaggio.
In quei momenti che solo ad un insetto potevano sembrare secondi, l'istinto animale dalle
origini ancestrali resistito all'evoluzione del nostro DNA mi fece capire prima dei sensi
che quelle figure immonde non avevano per nulla buone intenzioni.
Preso dal panico per quanto sarebbe potuto accadere, provai a rialzarmi e a fuggire, ma
scivolai sull'asfalto bagnato almeno tre volte. Alla terza, la mano immonda di uno di
quegli esseri era passata a pochi centimetri dal mio piede con tutta l'intenzione di
volerlo afferrare.
La velocità con cui quei mostri misteriosi si muovevano senza produrre alcun rumore era
stupefacente e mi fece ben capire che dovunque avessi corso, loro sarebbero riusciti a
raggiungermi e se fossi scivolato di nuovo, cosa assai probabile, non avrei avuto scampo.
Così, un calcolo velocissimo fatto in una frazione di secondo e lo stesso istinto che
prima mi aveva dato aiuto mi suggerirono di tentare il rifugio sotto la vecchia tenda. Non
so quanto misteriose siano state le equazioni del pensiero che mi avevano indotto a
prendere una decisione simile ma fatto sta che quel giorno la fortuna sembrò aver deciso
di prendermi per mano.
Una volta raggiunta la tenda, infatti, gli esseri provarono a protendere le loro orrende
braccia al di sotto di essa nel tentativo di afferrarmi, ma ogni volta che ci provavano, i
loro mostruosi arti scomparivano, mozzandosi proprio in corrispondenza del limite della
tenda, dietro il quale la pioggia non batteva e io trovavo riparo. Dopo la prima volta, i
mostri indietreggiarono e le loro braccia ricrebbero misteriosamente dal nulla, per poi
scomparire di nuovo al loro successivo tentativo di protenderle sotto la tenda.
Guardando i loro ripetuti e disperati tentativi di afferrarmi e di girare intorno a me per
cercare inutilmente una via d'entrata, capii in un lampo che il campo d'azione di quegli
esseri era la pioggia e che sotto la tenda, al sicuro dal temporale, non avrei dovuto
temere i loro artigli. Restai per diverso tempo ad osservare quelle figure contorte e
disumane affannarsi con ogni movimento che le loro braccia immateriali riuscivano a
compiere nel tentativo di scavalcare l'invalicabile barriera che mi proteggeva da loro.
Qualunque sorta di esseri fossero, qualunque fosse il luogo dal quale provenissero, è
sicuro che la loro perversa natura non conosceva il significato della fatica. Dopo diverse
ore, infatti, continuavano imperterriti ad affannarsi con la stessa foga che avevano
mostrato dopo che avevo mosso il primo passo sotto la tenda.
Ma il nemico più temibile per quei mostruosi esseri, l'avversario invincibile che neanche
loro sarebbero mai riusciti a sconfiggere era il sole splendente. Così come la pioggia
era sopraggiunta improvvisamente insieme ai mostri che vi vivevano, infatti, anche il bel
tempo spuntò improvvisamente e quando i raggi del sole perforarono le nuvole mentre le
ultime gocce di pioggia decretavano la fine del temporale, le immonde figure scomparvero
nel nulla, contorcendosi e dimenandosi dolorosamente per l'ultima volta prima di
dissolversi completamente nei raggi luminosi e ritornare ad essere niente.
Titubante e ancora scosso, fu solo dopo qualche attimo di smarrimento che uscii dalla
tenda diventata il rifugio che mi aveva appena salvato la vita. Certo, il sole era ormai
splendente e di quegli esseri non vi era traccia, ma il fedele istinto mi suggeriva di
dare una controllata molto attenta prima di allontanarmi troppo dalla tenda. Dovevo
accertarmi che quei mostri fossero scomparsi davvero. Dopo aver visto quanto avevo visto,
le mie certezze avevano cominciato a vacillare e non mi sentivo più sicuro di niente.
Ma, fortunatamente, dopo aver scrutato l'ambiente con occhi vigili e attenti e dopo aver
appurato che di quegli esseri non vi era più alcuna traccia, potei finalmente permettere
a un sospiro di sollievo di accompagnare i miei passi verso casa.
Un'avventura da incubo, direte voi. E infatti fu proprio questo: un incubo. Mi svegliai
nel mio letto, sudato e tremante, i polmoni che si gonfiavano e si sgonfiavano in un
respiro affannoso. Mi guardai intorno smarrito come un viaggiatore che arriva in luoghi
dei quali non conosce né la cultura né la lingua e mentre i muscoli delle mie mani (che
avevano cominciato a tremare dopo il brusco risveglio) cominciavano a rallentare il loro
tremore fino a farlo cessare, la veglia ebbe il sopravvento sul sonno, il respiro si
stabilizzò e ritornai in pieno possesso delle mie facoltà razionali.
I demoni della pioggia, la strada, l'università, era stato tutto un sogno. Mi venne quasi
spontaneo controllare l'ora, ma anche il ritardo era svanito con il risveglio. Mancavano
infatti tre ore piene all'inizio dell'esame. Rincuorato e rasserenato, mi abbandonai sul
letto chiudendo gli occhi per cercare di riprendere il sonno, ma appena chiusi le
palpebre, quelle orrende figure di acqua e orrore si delinearono nei miei pensieri,
immediate e vivide come se fossero ancora lì davanti a me.
Di esse ricordavo ogni particolare: le loro fauci spietate, le loro braccia lunghe e
minacciose, le loro mani artigliate che cercavano di afferrarmi mentre sui loro volti
indefiniti riuscivo a scorgere espressioni terrificanti.
Passai l'esame con 28, ma da quel giorno non sono più uscito più da casa durante i
giorni di pioggia. Ogni volta che sento lo scrosciare di un temporale, che intravedo il
bagliore della folgore o che semplicemente odo il ruggito di un tuono, il ricordo di
quell'incubo cammina al fianco dei miei pensieri e quando dalla finestra della mia camera
volgo lo sguardo verso le strade bagnate di Milano e vedo la gente che le attraversa, mi
sembra ancora di vedere le sagome vagamente delineate di quei mostri orrendi che si
spostano nella pioggia alla ricerca di vittime.