Al tempo di
questi fatti, credo che Mimmiu Zoncu non avesse meno di settantacinque anni, e era un
vecchio scorzone e legnoso quanto bastava. Di solito se ne stava per quasi tutto il giorno
seduto su di una seggiola impagliata appena fuori il giardinetto di casa sua. Se ne stava
lì con le braccia sulla spalliera come con lintenzione di ciarlare. E invece
restava per tutto il tempo scontroso e silenzioso come un rapace spennacchiato, mentre con
i suoi occhiacci grifagni pareva che raschiasse i paraggi.
In paese si diceva che assieme al suo mezzo sigaro (che rompeva coi denti e poi risputava
in grossi scaracchi) ruminasse amaro i suoi propri affari e pure quelli del mondo. E, in
verità, di affari propri ne aveva da ruminare, eccome! Lui ci beveva sopra, e questo era
un fatto. Ci beveva birra e non vino, così i suoi baffi erano sempre spumosi; poi qualche
raschio di gola e nientaltro: se ne tornava silenzioso.
La sua casa stava quasi in cima a una salita che portava al centro di Bonela e Bonela è
un polmone, un bronco, unarteria, una venuzza, un capillare, un globulo... della
Sardegna. E forse pure la sua anima.
Mimmiu Zoncu indossava sempre una giacca e un paio di pantaloni di orbace e una camicia di
fustagno a quadrettoni con sopra un panciotto in telaccia scura; che fosse estate oppure
inverno.
A una certa ora della sera si alzava lentamente dalla sedia e rientrava in casa. Sempre
alla medesima ora. Non ricordo di averlo mai visto fare delle passeggiate in compagnia di
altri vecchi.
In giro si diceva che Mimmiu Zoncu fosse stato un assassino e che alcune sue vittime
(bambini per lo più) le tenesse ancora conservate nella formalina dentro certi barattoli.
Io non so come farebbero a conservarsi lì dentro, ma non ho mai dubitato che Mimmiu Zoncu
potesse tenercele per davvero. La diceria era nata dopo che Mimmiu Zoncu era stato in
prigione, là in continente. Ma può anche darsi che io mi sbagli e che quella diceria sia
nata prima.
Perché ci fosse stato (in prigione, intendo) nessuno lo sapeva. Ma poi non è che a
quelli del paese importasse granché: poteva anche essere capitato che un suo delitto,
passando di bocca in bocca, si fosse semplicemente ingigantito fino a diventare quella
diceria. Come una valanga in montagna, insomma. Né più, né meno.
Noi ragazzini spesso gli ronzavamo attorno come mosche cavalline, forse per esorcizzare la
paura che ci faceva; lui, quelle volte, quando era stanco di sopportarci, si alzava di
botto dalla seggiola buttandola allindietro e poi brandendo il bastone come
unarma si faceva minaccioso.
- Sciò, sciò, via via - gridava e noi, che vedevamo la seggiola dondolare, gridavamo
dietro di lui:
- La cadrea, la cadrea. -
Lui seguitava a sbraitare per un po, poi, a gambe larghe, forse per via
dellorchite, ci girava le spalle e se ne tornava dentro.
Mimmiu Zoncu aveva la faccia sugherosa e una sola volta mi riuscì di vedergli il torso
nudo e mi sembrò il tronco di una vecchia quercia scortecciato della camicia del
panciotto e della giacchetta. Fu quando mi sorprese a casa sua la sera che precedeva il
mio esame di terza media, dopo che gli avevo ronzato attorno per un bel po insieme
ai soliti tre o quattro, fin quando, almeno, lui non sera alzato e aveva brandito
minaccioso la sua arma.
- Bos sego sischina - aveva gridato e a gambe larghe sera buttato in
avanti. - Vi rompo la schiena, scimuniti che non siete altro. Si può sapere che gusto ci
provate a tormentare un povero vecchio, eh? -
Noi ci tirammo indietro e poi frullammo via come uno stormo di cornacchie. Nel farlo lo
canzonavamo con gestacci e pernacchie.
- Arrhh... arrhh...- come si fa con gli asini. Proprio.
Lui ci sformava forse per via di quel suo passato di cui si favoleggiava.
- Ah, si bos tenzo! - gridava. - Ah, se vi prendo! -
Poi rientrò; allora noi prendemmo a scalciare i sassi: non cè mai molto da fare a
Bonela la sera, se non andare in qualche bettola a bere vino fino a stordirsi in quei fumi
acidi e caldi; ma noi eravamo ancora troppo giovani per farlo. Gavino no. Lui era già
abbastanza grande. E lui quella volta aveva detto:
- Davvero ci credete che da giovane sia stato un assassino? -
- Io sì - dissi.
- Sei un credulone, ecco che sei - disse lui.
- Sì, sì, un credulone - gli fece eco Natalia guardandolo. Ma Natalia non contava:
avrebbe assecondato qualsiasi cosa Gavino avesse detto. Nessun altro aveva aggiunto
commenti. Così mi pare. Almeno. Ma può darsi che fossimo soltanto noi tre.
Io dissi:
- Non sono un credulone. Lo sanno pure i sassi che Mimmiu Zoncu è stato un assassino. -
- Favole - disse Gavino.
- Eppure scommetto che i barattoli con le vittime assassinate li tiene nascosti da qualche
parte - dissi io.
- Io, se fossi in te, andrei a controllare se in casa tiene cose in salamoia - disse
Gavino. Aveva un sorrisino antipatico e maligno.
Ma io dissi:
- Ci vado. -
- Eh? - Fece lui.
- Ci vado, ci vado - ripetei io. E provai un gran gusto a sorprenderlo perché non era
facile sorprendere Gavino. Gavino Mendea era basso e tarchiato ma aveva già diciotto
anni, quattro più di noialtri, era un uomo fatto e sapeva cavalcare a pelo meglio di
chiunque altro e già conosceva lo stordimento che il vino procura. Per questo ci
dominava.
Allora lui mi disse:
- Ma se hai il cuore di mozzarella.-
- So io come ce lho il cuore - dissi io. - Ho detto che ci vado e ci vado: stasera.
-
Fu così che decidemmo per quella sera.
- E adesso vai - Mi disse Gavino non appena fummo là. - Vediamo di che pasta sei. -
Io guardai il cancello e poi le sue lance puntute, e mi decisi a arrampicarmi su per il
muro; ma quello si sgretolava e le scarpe scivolavano via. Gavino allora mi spinse da
dietro.
- E non imbrogliare - disse.
- Eh? -
- Nudda, nudda. Niente. -
A quel tempo non mi preoccupavo molto delle conseguenze di un fatto come quello, perché
cose così si facevano per valentia, come andare di notte a Fardighei, per esempio, e poi
dentro il nuraghe di Malabrigura a prendere il fazzoletto lasciatoci la mattina, quando la
luce scaccia i diavoli; oppure passare la mezzanotte nel cimitero di Bonela, magari
d'inverno, a sentire il frusciare dei cipressi. Credo che cose così valessero come
apprendistato per diventare uomini. Non so.
La porta dingresso non era chiusa a chiave: nessuno a quel tempo usava farlo. Ma
quando entrai non sapevo bene da che parte andare; e nonostante che tutto là fuori fosse
inondato dal chiarore della luna, lì dentro era buio pesto; perciò ero guardingo e
camminavo in punta di piedi; pure, subito, mi giunse la voce del vecchio, era affannata,
come dopo una corsa, ma io sapevo che era per la paura.
- Chi è là? - Lo sentii gridare. La sua voce veniva da una stanza che mi stava di fianco
e era vicina, terribilmente vicina. Così io mi girai da quella parte e poi me ne restai
per po' a fissare il buio.
Lui ripetè:
- Chi è là? - Ma anche questa volta non accese la luce così io me lo immaginai bloccato
nellatto di spogliarsi prima dinfilarsi a letto. Quando lo fece (quando accese
la luce, cioè) lo vidi, e vidi che la pelle gli stava addosso lenta e grigia come
cartoncino ammollato; e il suo corpo era magro e piegato. A ripensarci adesso mi accorgo
che fu soltanto dopo che associai quella sua figura a quella di una vecchia quercia
scortecciata. Non so perché. Forse per via del pallore del torso così in contrasto con
labbronzatura del collo da tartaruga che aveva e con quella delle sue mani di
vecchio neonato; era come se uno strato di pelle gli fosse stato scalzato via. Una cosa
così.
Una cintura alta e grossolana gli prendeva la pelle insieme alla stoffa dei pantaloni e
gliela raggrinzava; il torace era piatto, senza muscolatura, quasi glabro e i pochi
peluzzi, grigi morbidi e lunghi, lo inseminavano solo nella parte dei capezzoli.
Il suo bastone era poggiato contro il letto, come unarma disinnescata.
Mi guardò.
- Sono vecchio - disse - ma ancora buono a dare bastonate. -
Non lo dubitavo.
- Non abbiate paura - dissi.
- Non ne ho - disse lui. E davvero pareva che non ne avesse.
Adesso mi guardava fisso, attento a ogni mio movimento; ma non provò a agguantare il suo
bastone.
- Che vuoi? - Mi disse.
- Voglio vedere i barattoli. -
- Che barattoli? -
- Quelli dove ci tenete i cadaveri.-
- Non esistono.-
- Sì che ci sono.-
- Tu sei venuto per derubarmi.-
- Non sono venuto per derubarvi. Per niente. Sono venuto per quei barattoli, soltanto per
quei barattoli.-
- Lo sai che non ho soldi.-
- Non mi interessano i vostri soldi. Sono qui per quei barattoli.-
- E se io ti dicessi che non ce li ho?-
- Cercherei lo stesso - gli dissi io.
- Potrei bastonarti - fece lui.
- No che non lo farete - dissi io. - E io andrò a cercare quei barattoli.-
Fu a quel punto che il vecchio Mimmiu Zoncu parve finalmente quietarsi e si mise seduto
sul letto. Era affranto. O così mi pareva. Almeno.
- Prima voglio raccontarti una storia - mi disse e mi guardò fin dietro gli occhi, fino a
farmi muovere con disagio. - Avevo un figlio - disse. - E stato tanto tempo fa.-
Al che io feci:
- Oh! -
E lo guardai anchio come fino a quel momento non avevo fatto: gli tirai la pelle
sugherosa e gli ritinsi la faccia di rosa, diedi sprazzi di luce ai suoi occhi
cancellandogli il bigio dagli orli, gonfiai le sue guance e le sue labbra, gli ridiedi i
capelli e glieli colorai di un nero fuliggine; io feci tutto questo e vidi suo figlio. Suo
figlio!
Lui continuò:
- Una volta l'ho portato su a Fardighei e gli ho detto che quella notte sarebbe dovuto
entrare nel nuraghe di Malabrigura e prendere il fazzoletto che ci avevo messo.
A sei anni aveva le ossa di un fringuello e conosceva le brutte storie su Fardighei. Come
tutti, daltronde. Ma io non ho ascoltato i suoi piagnucolamenti. Non volevo che si
guastasse ancora prima del tempo mi capisci? Mi capisci? -
Io gli feci cenno di sì, che capivo. Ma lui non mi guardava già più.
- Temprato come lacciaio - continuò, - come nessuno mai a Bonela: a quel modo lo
volevo. Così lui quella sera ci andò: gli fustigai le gambe per questo fino a rompere la
verghetta. Mi misi a rifarla mentre aspettavo. Il vento era quieto, quel giorno di
novembre, eppure ne udii dun tratto il lamento; fu un lamento lungo e cupo, ma senza
isterismi: le chiome degli alberi rimasero immobili.
Allora mi alzai e andai anchio verso il nuraghe. Ma fu soltanto dopo. Molto tempo
dopo che mio figlio era andato.
Lo trovai disteso per terra davanti al nuraghe e aveva la faccia allingiù e le
braccia allargate come se volesse abbracciarla e baciarla, quella terra: in mano stringeva
il fazzoletto. Capisci? Stringeva ancora il fazzoletto in mano e me lo porgeva attraverso
la morte: pareva che la vita gli si fosse ritratta a partire dalla punta delle dita; le
gambe erano leggermente ripiegate come se avessero strusciato e pedalato sul terreno fino
allultimo giro di vita. E poi... e poi... -
E poi non mi disse più niente. Ma io ormai avevo in testa quelle dita, rigide e puntate
in alto, e così neanchio dissi niente: ero già molto scosso dal sapere che il
vecchio Mimmiu Zoncu aveva avuto un figlio. Molto, molto tempo addietro. Un figlio che gli
era poi morto di paura.
Lui, dopo un po, mi disse:
- Adesso vieni con me. -
Io lo seguii. Fin giù in cantina. Laggiù cera buio e io immaginai che in qualche
angolo ci fossero dei bottiglioni dal collo largo con dentro salamandre in formalina. Suo
figlio tenuto in salamoia! Un atto damore, niente altro che un estremo atto
damore.
E adesso, a ripensarci, mi viene in mente che cose così oggi non potrebbero più
capitare, voglio dire conservare un proprio figlio morto nella formalina per amore; io
penso che questo mondo nuovo che sopravanza ha già distrutto cose così, e non cè
rimedio; presto non avremo più radici e saremo come pula di frumento al vento. Ma allora.
A quel tempo tutto sarebbe potuto ancora accadere, anche che quella salamandra conservata
in un bottiglione (non avevo dubbi su quello che ci fosse là sotto) che quella salamandra
potesse allimprovviso agitarsi, girarsi, nuotare dondolando in quel liquido
amniotico e poggiare i suoi pugnetti informi contro il vetro dellampolla e poi
guardarmi con i suoi grandi occhi rotondi e acquosi. E emettere bolle d'aria.
Anche questo sarebbe potuto accadere.
Ma sentii la mano di Mimmiu Zoncu passarmi sul collo, piano, e lui dire:
- Tu assomigli tanto a mio figlio. -
Io mi ritrassi. Puzzava come un cane bagnato: un albero scortecciato, un vecchio albero
scortecciato e marcio, la sua puzza di vecchio, ma le sue braccia erano ancora nodose,
buone a tenermi, e le sue dita che mavevano arpionato il collo serano fatte
improvvisamente dure e forti. Le sentii scivolare da sotto la nuca, spostarsi sul davanti,
puntarsi sul pomo e poi, da lì, la punta del pollice allargarsi sul mento e spingerlo
verso lalto, forte.
- Tu assomigli troppo a mio figlio - mi disse Mimmiu Zoncu.
E poi, con un colpo solo dellaltra mano che maveva poggiata sulla fronte,
Mimmiu Zoncu mi rovesciò il capo e provò a baciarmi.
Di là esplose un bottiglione; l'acqua scrosciò di getto. E io sentii il pianto disperato
di un bambino.
Nicola Verde è nato a Succivo (CE) nel 1951, è sposato, ha un figlio e vive a Roma. Ha pubblicato racconti in varie antologie, in un paio di quotidiani e in alcune riviste; un suo racconto è inserito in un manuale di scrittura creativa. Ha ricevuto importanti riconoscimenti nell'ambito di premi dedicati alla fantascienza, al Courmayeur, Alien, Lovecraft, Napoli in giallo di Attilio Veraldi, Esperienze in giallo, Lama e Trama. Dell'impronta regionalistica sarda della sua scrittura tiene a far sapere che non è per seguire una moda, ma per interessi che risalgono a tempi "non sospetti". Sardità ad honorem, dunque, quella di Verde; la moglie (sarda di nascita) traduce le parti in dialetto dei suoi scritti. Nel 2004 ha pubblicato Sa morte secada con la Flaccovio editore.