Il 24
giugno 2077 fu condannato a morte. Fu accusato di aver commesso il peggiore dei reati. La
sobillazione e la divulgazione di scritti contro la Nazione. La sua stessa Nazione. Per
questo la condanna fu la più atroce. La Cella l'attendeva per decretarne la fine.
La Cella dove fu rinchiuso era lunga circa quattro metri e larga appena un metro. La sua
altezza era precisamente di tre metri e ottanta centimetri. La Cella era un solido
parallelepipedo costituito da un nero e possente metallo. Il pavimento era inoltre
ricoperto da circa tre centimetri di sudicia terra dura e compatta, umidificata e
fortemente intrisa dal sangue di chi l'aveva preceduto. Le pareti erano lisce e perfette,
perfettamente funzionali al crudele funzionamento della Cella. Su una parete stava una
piccola porta e su di essa, a livello del pavimento, una stretta finestrella con una grata
da cui filtrava l'unica fioca luce, il tanto sospirato ossigeno e da cui avrebbe ricevuto
il pasto una volta al giorno. Il meccanismo della Cella gli fu spiegato all'ingresso e la
sua semplicità non richiedeva alcuna ulteriore spiegazione. Il meccanismo abbassava il
soffitto con una variazione che andava dai quindici ai trenta centimetri. L'ampiezza
dell'abbassamento e la data di questo venivano decisi casualmente da una macchina vanto
delle autorità carcerarie. Questa portentosa macchina, secondo queste autorità, rendeva
la data della morte inconoscibile, se non qualche istante prima dell'ultima e implacabile
pressione sul pavimento. Occorreva solo aspettare nel buio della cella, ascoltando e
raggelando al rumore dei pistoni che di volta in volta sottraevano centimetri e speranze
al condannato.
Una volta dentro, si accorse, tastando nell'oscurità pareti e pavimento, che quel
maledetto loculo l'avrebbe presto portato alla follia. Per non cadere preda dei suoi
demoni, cercò così d'estraniarsi ricordando nel modo più dettagliato possibile ogni suo
giorno di vita passato. Le sue giornate con Eleonora al mare, ancora fresche e vitali
nella sua mente, tanto da vederne i colori e sentirne gli odori; e poi le tante lotte
fatte con gli amici, gli anni dell'Università e delle illusioni quando ancora era
permesso discutere e pensare; e poi la sua infanzia e i suoi genitori uccisi dalla
povertà e dalla fame. Decise anche con un notevole sforzo di volontà di smettere di
rosicchiarsi le unghie e come unico svago avrebbe con esse grattato quella ruvida terra
illudendosi di ritardare la propria morte.
Il tempo nell'oscurità passava lentamente e l'unica cosa che poteva scandirlo era il
terribile rumore degli ingranaggi e dei pistoni in moto. Non si abituò mai a sentirlo
anche se, quando il soffitto arrivò a meno di cinquanta centimetri da lui, era passato
circa un anno. Ovviamente lui non lo immaginava. Poteva essere un secolo o solo un
secondo. La sua mente ormai volava tra incubi e deliri ma con forza ancora si aggrappava
ai primi propositi, mantenendoli come uniche certezze e baluardi della propria identità,
i ricordi erano l'unica ancora e le sue unghie erano ormai lunghe e deformi.
Aveva anche riflettuto parecchio sulla morte. Fermamente ateo non aveva invocato nessun
Dio per ottenere favori o protezione, non aveva barattato alcuna salvezza in cambio di
preghiere e suppliche, non aveva richiesto alcun perdono per essere nato e per aver
vissuto amando i propri simili e assecondando le proprie passioni. E si aspettava poco
dalla morte se non la cessazione dei propri tormenti e la fine di ogni illusione. Un
momento d'infinito dolore, un atto di estremo coraggio e mi ricongiungerò con il nulla e
la sua pace. Si diceva ogni giorno e per ogni ora.
Poi venne nuovamente il malefico rumore. Per quasi cinque minuti si attivò il terribile
sibilo, come se la macchina prendesse fiato, come se si desse coraggio per eseguire tale
nefasto compito. E l'aria, ogni volta che la macchina si attivava, pareva davvero
scomparire dalla Cella, gli occhi gli strabuzzavano e i polmoni s'irrigidivano spinti
verso l'alto da un cuore che nel panico annegava nel proprio sangue. Cinque lunghi minuti
e la paura si faceva terrore quando i pistoni schiacciavano con forza la pesante lastra di
metallo che lentamente e implacabilmente strisciava verso il basso raschiando e ripulendo
le quattro pareti da ogni impurità.
Un minuto, forse meno, e la mannaia aveva consumato circa trenta centimetri, portandosi a
poco più di dieci centimetri dal suo naso e dal suo corpo supino. Ora tutto era spento e
silenzioso, il boia dormiva un'ultima volta.
Lui sapeva che il prossimo sibilo sarebbe stato l'ultimo, quello fatale. Si spinse sempre
supino verso la grata in cerca d'ossigeno e urlò colpendo con i pugni sul soffitto.
Forza. Urlava. Fatelo scendere. Cosa aspettate. Non avete altri ospiti per questo inferno?
Uccidetemi. Fatelo scendere.
Per la prima volta, forse per il fastidio mai provato fino ad allora, una guardia si
avvicinò alla grata, inchinandosi e rivolgendogli la parola. Gli disse di finirla che era
la macchina, attraverso i suoi mille calcoli precisi e da sempre previsti, a decidere e a
determinare la sua morte. E poi, prendendoci gusto, continuò. Non avere fretta.
Minacciò. Sarà il minuto peggiore che un essere umano possa provare. Non avrai la forza
di urlare. Qui non si odono mai urla o schiamazzi. Per primi ti verranno fuori gli occhi
così deboli alle forti pressioni. Sai, spesso schizzano fuori dalla grata sporcando
tutto. Ma non avrai il tempo di lamentartene perché i tuoi polmoni in fiamme esploderanno
e tutte le tue ossa verranno frantumate presto. Rise sguaiatamente. Poi rammentò il suo
ruolo e soprattutto le punizioni inflitte dal suo superiore a chi, anche in buona fede,
aveva tradito le procedure o fallito nei propri compiti. Così si alzò, si guardò
prudentemente attorno e ritornò ai suoi compiti.
Lui per un tempo indefinito, fatto di settimane, rimase vicino alla grata cercando
affannosamente l'ossigeno e raschiando nervosamente sulla terra le sue grosse unghie.
Pregò di sentire presto l'atroce sibilo, la possente massa ferrosa incombeva su di Lui
sfinendolo. Gli toglieva l'aria rendendola calda e umida. Lo obbligava a stare disteso e
come unico movimento gli era concesso girarsi sui lati e con fatica tirare su le gambe.
Per un lungo periodo rimase in quella posizione fetale, apparentemente incosciente, a
ricordare la sua nascita.
Poi un brivido percorse veloce tutto il suo corpo, riossigenando, per un attimo, i muscoli
degli arti ormai rattrappiti, leggere vibrazioni si espandevano dal soffitto per tutta la
Cella. Pochi secondi e la macchina mise in funzione il suo perfido meccanismo. Il suo
cervello recepì il segnale e in un ultimo istante di coscienza attivò il piano da subito
premeditato. Vinco io. Fu l'ultimo pensiero. Poi, mentre il sibilo prendeva vigore,
conficcò i sui allenati artigli sotto il pomo d'adamo, squarciando pelle e giugulare. Con
determinata follia spinse a fondo le sue unghie finché il sangue intasò trachea e vie
respiratorie. La morte fu dolce come mai l'aveva sognata.