L'agguato

Max aveva scovato la sua preda: un gobbo avvolto in un vecchio cappotto nero. Lo aveva visto uscire da una piccola merceria del centro, e ne era rimasto subito disgustato. La schiena curva che lo faceva assomigliare a un uncino, l'espressione ottusa di un ritardato e gli abiti stracciati erano insopportabili. In meno di mezzo minuto aveva decretato la sua condanna.
Lo aveva seguito a distanza per un'ora, giungendo fino in periferia. Il gobbo percorreva lentamente una strada buia che si perdeva in aperta campagna. Max lo superò passando per una viuzza parallela. Conosceva quei posti, perché lì aveva già rotto le gambe a un paio di senegalesi. Era una vecchia zona periferica dove non abitava quasi più nessuno. Sfrecciò fra i gusci abbandonati degli edifici, e raggiunse una stretta curva scavata fra due case in rovina, dove il vicolo vomitava i suoi rottami sulla strada.
Si nascose dietro un muretto distrutto e gettò uno sguardo intorno. Non c'era nessuno in giro. La preda era rimasta indietro. Appariva come una virgola nera che passava oltre l'ultimo lampione acceso.
Max rimase in attesa, tormentando il gelo notturno con il suo manganello. Il respiro era carico d'eccitazione. Inspirò una profonda boccata d'aria che gli morse il cuore e gli tinse di nero il sangue che cominciava a salirgli alla testa. Durante le sue sortite notturne avvertiva una forza particolare scorrergli nelle vene, e ogni volta che tornava a casa si sentiva rinvigorito. La mattina dopo, quando andava al lavoro, riusciva addirittura a trattenere la nausea alla vista dell'ammasso brulicante di accattoni e immigrati che infestavano le vie della sua città.
Si chiese se quel gobbo avesse qualche spicciolo. Il mese precedente aveva ridotto in fin di vita una lurida vecchia, e aveva scoperto che s'imbottiva il reggiseno con banconote da cento euro. Se non gli avesse trovato addosso neppure un centesimo, lo avrebbe pestato fino a spaccargli tutte le ossa. Quel pensiero gli tirò le labbra in un sorriso simile a una falce.

Udì i passi avvicinarsi. Si alzò la sciarpa fino agli occhi, mentre i suoi muscoli si tendevano come corde d'acciaio, pronti a sferrare la mazzata micidiale. La preda apparve a pochi metri davanti a lui, oltre il muretto. Max guizzò fuori dal suo nascondiglio e con tutta la forza la colpì sulla testa, ma non ci fu il tonfo del corpo a terra. Una risata schizzò fuori dalla sua vittima e avvolse tutta la strada.
D'un tratto, si sentì come una botte di vino bucata da un proiettile. Quel suono inaspettato lo stava svuotando di tutto il suo coraggio, e sul fondo dell'anima cominciò a comporsi la sensazione di trovarsi in un posto dove non avrebbe dovuto essere. Il profilo della sua preda sussultava per il riso, e quella scena lo lasciò per qualche secondo in un'incertezza ebete.
Il gobbo si voltò, e Max vide che la sua faccia aveva qualcosa di strano. Possedeva una singolare mobilità, un tremore continuo che correva sotto la pelle e che si trasmetteva alle labbra, al naso, agli occhi. Il fremito era sempre più intenso, come se i muscoli si contraessero ognuno per i fatti propri. La testa sembrava quasi un pallone pieno d'acqua, sulla cui superficie una mano avesse tratteggiato i lineamenti di un volto deforme.
- Ho dovuto attendere un po'- sibilò il gobbo - ma finalmente sono riuscito a prenderti.
Non era quello che Max si aspettava. Per un attimo pensò di fuggire, ma qualcosa lo trattenne. Sentiva montare una grande rabbia dentro. Non poteva permettere che un dannato storpio si prendesse gioco di lui. L'odio cominciò a premergli contro le tempie, mentre cercava di riemergere dallo stupore.
Alzò il braccio per rovesciare su quell'uomo tutta la sua furia, ma a un tratto avvertì una puntura all'addome e qualcosa muoversi, fluire dentro di lui. Abbassò lo sguardo, e anche la rabbia si dissolse, lasciando il posto allo sbigottimento.
Vide un serpente umido di carne uscire dal cappotto dell'uomo, all'altezza del petto, e infilarsi sotto i suoi abiti, ficcarsi nella sua pancia. Un secondo dopo, lasciò cadere il manganello, quasi contro il suo volere, come se qualcosa nel cervello avesse scavalcato la sua volontà e allentato la presa della mano.
La vista cominciò ad appannarsi. I contorni si facevano sfocati sfumando nelle tenebre. Eppure un'altra sensazione gli arrivava chiara: un fluido caldo gli stava invadendo l'addome attraverso quel tentacolo di carne; e ogni volta che quella cosa sussultava, avvertiva un fiotto di fluido più copioso gonfiargli la pancia, bagnandogli i visceri.
Alzò lo sguardo e avrebbe voluto urlare, ma qualcosa nella testa gli aveva serrato la bocca. Scorse il volto del gobbo. La pelle sembrava un lenzuolo logoro sopra un nido di serpi. Il viso era percorso da contrazioni muscolari che ne disfacevano i tratti. Schiocchi sordi provenivano dal corpo dell'uomo, come un concerto di ossa spezzate. A un tratto, la testa cominciò a sgonfiarsi rapidamente, come un palloncino che perde aria.
Max si sentì il ventre pieno. Gli pareva di aver divorato in pochi secondi un pranzo intero. Poco dopo quell'impressione cominciò a farsi più lieve, mentre si sentiva dileguare nell'oscurità dietro la quale il mondo era stato inghiottito. L'ultima cosa che avvertì prima di annullarsi per sempre fu l'assurda sensazione di essere rimestato dalla lingua della sua stessa bocca.
Il tentacolo che gli aveva punto l'addome si era rinsecchito in pochi secondi ed era caduto sulla strada, simile a un ramoscello d'albero. Il corpo del gobbo era ridotto solo a una pozzanghera di fango che intrideva gli abiti crollati a terra. Il volto, l'unico tratto umano, andava rapidamente scomparendo, bevuto dal suolo.
Max si riempiva la bocca di saliva, mentre guardava le sue braccia e le gambe con occhi nuovi e pieni di soddisfazione. Sputò dietro il muro dove poco prima si era acquattato.
- Addio Max - disse, guardando con un'espressione beffarda il grumo di saliva schiantato fra i calcinacci e i ciuffi d'erba. Poi si strinse nel giubbotto e riprese la strada verso la campagna.

Stefano Valbonesi