Episodio di Cain Street

Se prendete una mappa stradale recente di New Haven e cercate attentamente Cain Street, non la troverete. Non esiste più. Ma ho una buona ragione per ricordarla.
Circa dieci anni fa, New Haven, o almeno buona parte di essa, era ancora come era stata cento anni prima: c'erano molti vecchi edifici di mattoni, sia case che negozi, invecchiati dal sole, la neve e la pioggia di oltre un secolo. Devo ammettere che erano quasi tutti ingrigiti da decenni accumulati di polvere e fuliggine, ma non l'ho mai trovato spiacevole. La considero unicamente la patina del tempo. Quando il sole del tardo pomeriggio batteva di sbieco su questi edifici, assumevano un aspetto morbido e maturo che il mattone nuovo non potrà mai imitare.
Sapevo che la « città vecchia », come chiamavo tra me queste aree venerabili, era condannata. C'erano piani per distruggere praticamente ogni traccia del passato e sostituirlo con immense mostruosità di acciaio, vetro e pietra sintetica, che avrebbero ospitato complessi commerciali, fabbriche ed uffici oltre agli immensi sciami di cittadini che sopravvivevano generazione dopo generazione grazie ai sussidi pubblici.
Consapevole che quasi tutte le strutture del passato erano destinate alla demolizione, mi aggiravo incessantemente per le vecchie strade, sopraffatto dalla nostalgia per i tempi andati, pieno di una desolazione spirituale che le parole non possono descrivere.
Anche se esistevo nel presente, vivevo nel passato. Aspiravo ai giorni ormai persi nel tempo con un’intensità che colorava tutta la mia vita. Le mie fedeltà, i miei interessi e i miei affetti, avevano tutti radici nel secolo passato. Disprezzavo il presente, con il suo rumore, le sue pressioni incessanti e la crudeltà mostruosa e disumanizzata. Bramavo il passato come un drogato brama il suo oppio.
Era inutile discutere con me. Vivevo nel passato e per il passato, e non sarei mai cambiato.

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Parecchie volte, mentre vagabondavo nelle mie passeggiate solitarie, notavo un altro camminatore solitario, che riconoscevo dal suo modo di vestire insolito: giacca e pantaloni neri, cravatta di corda nera e scarpe nere alte coi ganci. Lo incontravo invariabilmente nella parte più vecchia della città. A volte passeggiava lungo i marciapiedi di mattoni, con la testa china come se fosse in trance. Altre volte era immobile su un angolo, scrutando qualche antica casa con un'intensità che dava nell'occhio.
Era di altezza media, ma magro in maniera cadaverica, sicché pareva più alto di quanto non fosse. Il suo volto dai lineamenti sottili appariva di mezza età, anche se avevo notato capelli bianchi come neve lungo il bordo del suo cappello nero a larga tesa. Se devo menzionare un altro colore, ricorderò il grigio dei suoi occhi, anche se personalmente li ho sempre considerati incolori, come l'acqua, come il vento. E tuttavia, paradossalmente, il loro sguardo sapeva essere penetrante (parola trita ma insostituibile), come imparai più tardi. La sua espressione complessiva era enigmatica, riservata, diffidente. E mi sembrò a volte di leggere della paura in quel volto fine.
Col passar del tempo cominciammo a incontrarci con maggior frequenza. Stupidamente ciascuno di noi faceva finta che l'altro non esistesse, che nessuno di noi avesse visto l’altro.
Nel frattempo, i piani per la distruzione della « città vecchia » venivano affrettati. Il pesante, brutale maglio del « progresso », privo di discernimento, non poteva venire arrestato.
Man mano che mi rendevo conto che i vecchi edifici e le strade che amavo sarebbero stati polverizzati anche prima di quello che mi ero aspettato, mi misi a percorrerli con maggior frequenza, soprattutto durante il tardo pomeriggio, al crepuscolo e di notte. Li infestavo come un fantasma senza pace. Ed ero tormentato; il pensiero della loro imminente distruzione mi gelava l’anima e mi rendeva quasi fisicamente malato. Anzi, persi l'appetito e dimagrii notevolmente.
Adoravo il tempio del passato; la sua distruzione mi colpiva come l’attacco di una vera malattia. Mi aggiravo senza pace, febbrilmente, maledicendo i compiaciuti imbecilli che misuravano il progresso dalle cosiddette « statistiche di crescita »: il numero di nuovi edifici insopportabilmente brutti, il numero di strade allargate, di nuovi parcheggi, di nuove « unità immobiliari » per le sciamanti orde proletarie che vendevano il loro voto in cambio di elargizioni sempre maggiori.
Ormai incontravo il mio compagno di vagabondaggi quasi giornalmente. Finalmente arrivammo a guardarci a vicenda con incertezza, ma ancora nessuno di noi parlava. Alla fine il fato, sotto forma di un improvviso e violento temporale di tarda estate, ci riunì.
Ero lontano dalla mia deprimente abitazione, nella parte centrale della città vecchia, un'area di venerabili edifici in mattoni di case consunte dal tempo di mattoni e legno, di marciapiedi di mattoni e viuzze e vicoli acciottolati. Non lontano scorsi il campanile di una vecchia chiesa di pietra (ormai da tempo ridotta in macerie) dove mio nonno era stato organista molti anni fa.
II temporale arrivò di colpo verso il crepuscolo. Ci furono pochi rombi di tuono come preavviso, poi la pioggia arrivò a cataratte, sferzata dal vento. Mi infilai nel vano della porta di un piccolo negozio abbandonato e lo trovai meno profondo di quanto avevo pensato. La pioggia scrosciava anche nel mio piccolo rifugio: mi accucciai contro la porta, cercando di decidere se restare dov'ero e infradiciarmi completamente, o tentare di corsa di raggiungere un altro riparo.
Mentre esitavo, infelice, scese l'oscurità e il temporale peggiorò ancora. Stavo per saltar fuori nella speranza di trovare un riparo migliore quando un eccezionale lampo bluastro illuminò tutta la strada. In quel breve bagliore accecante mi passò davanti l'uomo dal vestito nero. Miracolosamente, non saprò mai per quale ragione, si girò e mi vide.
Si fermò, mi fece un cenno e disse qualcosa; un rombo di tuono assordante scoppiato proprio in quel momento soffocò le sue parole. Compresi però che mi stava offrendo riparo, o aiuto di qualche genere. Balzai fuori dal mio androne inondato e mi affrettai a seguirlo.
Percorremmo di corsa e in silenzio circa un isolato, poi entrò in una piccola casa. La vidi solo di sfuggita ma notai che era di mattoni e sembrava la più vecchia tra tutte le case che avevo vistò in città.
Ormai completamente fradicio, seguii il mio soccorritore in un ingresso buio.
« Aspetti qui un istante », mi ordinò.
Entrò in un’altra stanza, annaspò brevemente, e la morbida luce del gas scacciò l’oscurità. Mi invitò a entrare. Mentre rimanevo in piedi, gocciolante, si chinò su un antiquato caminetto. In pochi secondi, lingue di fuoco scoppiettanti stavano aggredendo una pila ordinata di legna.
« Stia vicino », mi ordinò.
Obbedii volentieri; l'acqua colava dai miei vestiti sul legno pulito e verniciato del pavimento a larghe assi. Mentre mi giravo accanto al fuoco, lasciò la stanza, ma riapparve presto con una bottiglia, dei bicchieri, ed una specie di boccale di rame dal lungo manico.
« Non so come ringraziarla... », cominciai.
Mi fece tacere con un cenno. « Riparo dalla tempesta. Roba da niente. Qualunque gentiluomo lo offrirebbe; non merita ringraziamenti ».
Apparentemente indifferente ai suoi stessi abiti fradici, versò il contenuto della bottiglia nel boccale e lo tenne sospeso sul fuoco. « Rum caldo », spiegò, « è ottimo ».
In breve eravamo tutti e due seduti davanti al fuoco, sorseggiando il miglior rum caldo del mondo. Il mio imprevisto ospite si presentò come Thaddeus Woolson. Per un po' rimase taciturno, ma quando il calore del legno scoppiettante e quello del rum fecero effetto cominciò a parlare. Non fui sorpreso nell'apprendere che, come me, era un amante delle cose antiche e del passato. Ma rimasi sorpreso per la sua conoscenza enciclopedica della vecchia New Haven. Conosceva la storia locale degli ultimi duecento anni nei dettagli più minuti. Poteva riferire avvenimenti di un secolo fa con la chiarezza di un testimone oculare. Poteva descrivere strade, intere aree della città, come erano esistite un secolo e mezzo prima.
Alzò le spalle quando gli manifestai il mio stupore. « Ho passato l'intera vita a studiare il passato. Con un rigido addestramento, la memoria migliora ».
Appena menzionai il mio dispiacere al pensiero dell'imminente distruzione che avrebbe presto cancellato la maggior parte della città vecchia, un'ombra grigia gli passò sul volto.
Fissò le fiamme per lunghi minuti prima di parlare.
« Sì, so che sta arrivando. E penso che anche i miei giorni siano ormai contati. Mi va anche bene. Non ho desiderio di vivere dopo che tutto il passato è stato distrutto ».
Anche se capivo perfettamente i suoi sentimenti, cercai di rallegrarlo. « Non deve abbandonarsi alla disperazione. Non possono distruggere tutto! ».
Sorrise amaramente. « Al contrario. L'uomo è diventato il gran distruttore. La distruzione di una singola città è solo un episodio nella sua carriera letale ».
Cadde in un cupo silenzio e non parlò quasi più.
Mentre finivo di sorseggiare il rum, mi guardai in giro nella stanza semplicemente arredata. Aveva un aspetto coloniale, l'aspetto di una stanza intorno al 1790, sedie e tavoli semplici e costruiti a mano, tappeti intrecciati sul pavimento di assi, peltro vecchio stile e un po' di porcellana su una credenza modesta. Le candele e le lampade a olio di balena avevano ceduto il posto alle lampade a gas, ma l'impianto del gas era, credo, l’innovazione più moderna nella stanza.
Quando il tuono divenne solo un mormorio lontano e la pioggia scrosciante si trasformò in una pioggerella minuta, mi alzai per andarmene. Il mio ospite mi accompagnò alla porta e zittì di nuovo i miei ringraziamenti.
« Deve ritornare », mi disse. « Abbiamo molto di cui parlare ».
Lo assicurai che nulla avrebbe potuto tenermi lontano. Sorrise enigmaticamente e chiuse la porta.
Guardando verso l'alto mentre raggiungevo la fine dell'isolato, vidi che la mia nuova conoscenza viveva in Cain Street. Mi tornò in mente da precedenti passeggiate nella zona; sapevo che era una delle più vecchie strade di un solo isolato in città.
Mentre mi trascinavo verso casa attraverso la pioggerella, sperimentai la bizzarra sensazione di essermi addormentato sulla soglia sferzata dalla pioggia e di aver sognato l'intero episodio del mio amico in nero.
Ma non era un sogno. Lo incontrai presto di nuovo, e col passar dei giorni diventai un frequente ospite serale nella piccola casa di mattoni di Cain Street.
Sedevo volentieri per ore mentre parlava del passato. Aveva la capacità di renderlo vivo in un modo che avrei creduto impossibile. La sua memoria era prodigiosa e inesauribile. Molte notti tornavo a casa dopo mezzanotte ancora in preda all'incantesimo dei suoi racconti e aneddoti. A volte passeggiavamo insieme al crepuscolo e mi indicava singole case ed edifici, raccontandomene in dettaglio la storia degli ultimi cento o più anni.
Poco dopo l'inizio delle nostre passeggiate insieme, cominciò la distruzione della città vecchia. Bulldozer, autocarri, e l’equivalente moderno degli arieti presero il potere in forze. Uno per uno i vecchi edifici vennero sbriciolati e spinti nell'oblio. Calcinacci si sparsero per le strade e una nuvola di polvere rimase sospesa nell'aria. In più di un'occasione scoppiarono incendi nelle rovine dopo l'oscurità.
Appena le macchine della distruzione si misero in moto, notai un netto e sconvolgente cambiamento nel mio nuovo amico, Thaddeus Woolson. La pelle della sua faccia fine sembrò più tirata e tesa che mai; i pallidi occhi grigi apparivano caldi e febbricitanti; se possibile, la sua magra figura divenne ancora più cadaverica. Cercai di confortarlo, facendogli notare che almeno qualcosa del passato poteva venir conservato sotto forma di lettere, libri, oggetti antichi e così via. Anzi, lo incitai a scrivere lui stesso una storia della vecchia New Haven. Ma sembrava sordo alla mia simpatia e ai miei suggerimenti. Ammise, alla fine, che avrebbe dovuto scrivere una storia locale molto tempo prima. Quando lo incitai a cominciare subito, tuttavia, uno sguardo di stanchezza infinita gli apparve negli occhi. « E’ troppo tardi ormai », mi rispose, « le mie energie diminuiscono ogni ora che passa ».
Di necessità, le nostre passeggiate diventarono sempre più limitate. Lentamente ma regolarmente le ruspe e le massicce palle d'acciaio distruggitrici si avvicinavano.
Divenni estremamente preoccupato per Woolson e mi presi l'impegno di andarlo a trovare ogni giorno. Rimaneva nella sua piccola casa di Cain Street per la maggior parte del tempo, facendo solo una passeggiata molto breve al crepuscolo.
Col passar del tempo il suo aspetto diventò così allarmante che lo esortai a farsi visitare da un dottore. Era inutile. Non faceva nessuno sforzo per uscire dal pantano di depressione nervosa ed esaurimento fisico in cui era caduto. Le ossa del viso sembrava dovessero perforargli la pelle tesa. I suoi occhi cerchiati di rosso cominciarono a brillare. E io non potevo fare niente.
Per molti anni avevo raccolto fotografie di New Haven; avevo promesso di portargliele per scorrerle, ma per un motivo o per l’altro non lo avevo mai fatto. Una sera mi venne in mente che il momento attuale poteva essere perfetto per portargliele. Per qualche ora almeno potevano distogliere la sua mente dal turbine di distruzione che stava distruggendo la città che lui aveva conosciuto. E forse potevano confortarlo un poco.
Le tirai fuori e cominciai a guardarle, con una forte lente d'ingrandimento, come era mia abitudine, per cogliere i dettagli. Con quell'aiuto, insegne di negozi altrimenti indecifrabili potevano venir lette: vetrine, veicoli, e anche volti potevano venir portati vividamente a fuoco.
Ero arrivato circa a metà della collezione, quando trovai una foto di strada con la didascalia Chapel e State Street, 1842. Non c'era nulla di notevole nella fotografia. Mostrava un incrocio polveroso con qualche negozio, marciapiedi sotto antiquati portici di legno e un certo numero di carri a cavalli. Un gruppo di persone stava sull'angolo, vestito con gli abiti dell'epoca. D'impulso guardai con la lente questi antichi oziosi. Facendo così, la faccia di uno di loro mi fece quasi mollare la lente. Era la faccia del mio amico, Thaddeus Woolson! Naturalmente sapevo che era impossibile. Ridendo della mia stessa sorpresa, mi resi subito conto che stavo guardando uno dei suoi antenati, un nonno, probabilmente. Somiglianze del genere non sono certo rare.
Mettendo la foto in cima alta collezione, infilai il tutto in una scatola di scarpe e mi avviai verso la casa del mio amico a Cain Street.
Il cammino attraverso la città era scoraggiante. Interi isolati erano stati rasi al suolo.
Un’intera strada. non esisteva più. L'odore di gesso umido e la polvere di pietra rimanevano sospesi nell'umida aria autunnale.
Woolson mi salutò abbastanza cordialmente, ma con mio intenso disappunto mostrò poco interesse per le fotografie. Quando gli feci notare il suo volto che si guardava in giro su un angolo di strada del 1842, sembrò momentaneamente stupito, ma depose presto la foto.
« Thaddeus Woolson, mio bisnonno e omonimo », commentò, come se la coincidenza non avesse importanza. « Ho un suo dagherrotipo da qualche parte ».
Raccolsi le foto con un sospiro mentre lui scivolava nel silenzio.
Col passare dei giorni e l'avvicinarsi dei bulldozer, simili a qualche nuova specie di dinosauri d'incubo, divoratori di mattoni, sempre più prossimi a Cain Street, Thaddeus Woolsoon lasciava raramente la casa. Tutti i miei argomenti restavano senza effetto. O sedeva senza dire una parola, o passeggiava avanti e indietro febbrilmente. Sembrava angosciato per qualche catastrofe imminente e inevitabile. Cominciai a credere che potesse essere in preda a febbre cerebrale, o che potesse stare impazzendo veramente.
Anch'io aborrivo la distruzione della città vecchia, ma anche se a volte mi ero sentito male pensandoci, e assistendovi, ero deciso a sopravvivere come individuo e a continuare per quello che potevo, a conservare qualunque cosa rimanesse che si riferiva al passato, fossero solo antichi documenti e storie scritte.
E mentre simpatizzavo con la disperazione di Thaddeus Woolson, facevo del mio meglio per combatterla. Ma i miei sforzi erano inutili.
Alla fine, inevitabilmente, il mio amico ricevette un avviso finale di esproprio. Gli era stato comunicato di muoversi parecchi mesi prima, ma non aveva fatto tentativi di trovare un altro alloggio. Per interi isolati intorno a Cain Street le case e i negozi erano deserti; l'area sembrava una città fantasma in miniatura. Solo pochi topi e ogni tanto un relitto umano vagavano per le strade abbandonate.
Una sera, mentre entravo nella casa di mattoni, il mio amico mi indicò l'avviso di esproprio che stava su un tavolo lì vicino. A giudicare dalla sua espressione, poteva essere una sentenza di morte.
Cercai di ragionare con lui, facendogli notare che l'amministrazione comunale gli avrebbe pagato un buon prezzo per la proprietà appena avesse compilato i documenti necessari. Poteva anche rivolgersi ad un legale, aggiunsi, e forse ottenere una cifra maggiore.
Alzò le spalle. « Il denaro non significa niente per me, ora », commentò con una decisione che mi gelò.
Lo lasciai poco dopo, sentendo che non potevo fare altro. Se rifiutava di andarsene, i suoi beni sarebbero stati messi in strada e lui sarebbe stato portato fuori con la forza. Era assurdo, mi pareva, trascinare le cose a un punto così estremo e senza senso.
In una gelida notte di novembre, mentre il vento gemeva e sospirava attraverso gli edifici abbandonati della città vecchia, mi diressi di nuovo verso la casa di Cain Street. Entrando nell'area condannata, trovai rovine giacenti da ogni parte. Fredda luce lunare scintillava su vicoli disseminati di vetri rotti, imposte mezzo scardinate sbattevano quando il vento le faceva oscillare avanti e indietro. Porte dimenticate, per metà cadenti, cigolavano, sbattevano, cigolavano e sbattevano di nuovo. Non c'era in vista neanche un passante o un veicolo. Ogni isolato o due incontravo autocarri, bulldozer e gru parcheggiate in qualche spazio vuoto, in silenziosa attesa dell'assalto del mattino dopo. Case vecchie di cento anni erano diventate mucchi di mattoni. Antiche chiese, magazzini e negozi non erano più niente se non frammenti ammucchiati nel vano di qualche cantina. Il marchio della desolazione, dell'abbandono, era dappertutto. E mentre mi incamminavo alla volta di Cain Street, il vento selvaggio non smetteva di gemere.
Thaddeus Woolson non rispose quando percossi l’antiquato batacchio di ottone. Provai la porta, la trovai non chiusa a chiave, ed entrai.
Il mio amico era afflosciato davanti a un tavolo, con la testa tra le mani, l’avviso di esproprio davanti a sé. Il gas era stato tagliato da molto tempo e ora una singola candela illuminava la stanza. Mentre il vento si infilava dalla porta e le ombre ballavano tutto in giro, alzò la testa.
Rimasi a bocca aperta, guardandolo con costernazione. Nei pochi giorni dalla mia ultima visita era peggiorato in maniera sconvolgente. La sua faccia scavata, gialla, dagli occhi arrossati, sembrava quella di una mummia. Dimostrava molti più anni di quando l'avevo visto per l'ultima volta.
Arretrai verso la porta. « I… io chiamo un'ambulanza! », gli assicurai.
La faccia devastata si contorse in un ringhio. « Chiuda la porta, idiota! ». Gli occhi erano fissi nei miei come quelli di un pazzo. Chiusi la porta e mi sedetti vicino a lui.
Lasciò cadere di nuovo la testa e per cinque minuti buoni sedette immobile. Finalmente rialzo il capo. « Mi spiace, ma non sono più io; la fine si sta avvicinando rapidamente ». La voce ora era calma, ma per qualche motivo la trovavo più spaventosa di prima.
« Non c'è' nulla che possa fare? », chiesi.
Scosse la testa. « Nulla. Il tempo farà ciò che vuole di me; non posso resistere ancora».
« Ma sicuramente... ».
Alzò una mano. « Mi ascolti. Lei mi è stato amico, l'unico amico in questi ultimi anni, e ha diritto a una spiegazione finale. Conosce la vera natura del tempo? ».
Mi mossi a disagio sulla sedia, mentre i suoi occhi cerchiati di rosso sembravano brillare di una interna febbre devastante.
Alla fine parlai, aggrottando la fronte. « Penso che il tempo sia una dimensione, soggetta a leggi fisiche ».
« È così, ed è anche qualcosa di più. Non le è mai venuto in mente che il tempo è collegato in modo inestricabile con il luogo, il milieu? Che il tempo, essenzialmente, è cambiamento? E che se qualcuno potesse, mettiamo, uscire dalla corrente del tempo in un luogo relativamente im­mutabile, potrebbe (data sufficiente forza di volontà e potere di concentrazione) sfuggire al venir trascinato in avanti dalla sua marea? ». I suoi occhi scintillanti trapassavano i miei.
« Non lo avevo considerato sotto questo aspetto », ammisi.
« Bene, le dico che è vero! », esclamò. « Perché crede che sia rimasto attaccato così fermamente alla città vecchia, e ora a questa singola casa? Perché crede che sia invecchiato così terribilmente in questi ultimi giorni? Non riesce ad indovinare? ». La sua voce era diventata acuta; nella tenue luce della candela gli occhi sembravano fosforescenti.
Ero convinto che stesse davvero impazzendo. Cercai di calmarlo. « È un soggetto interessante », risposi evasivamente, « ma forse potremo discuterne meglio un'altra volta ».
Colse la mia ultima frase. « Un'altra volta! Non ci sarà un'altra volta! Il tempo ha finito con me! Non me ne rimane più! Le dico… Ascolti! ». Smise di parlare e si alzò, ascoltando.
Vicino si sentiva il fragore e il ruggito di macchinari che venivano avviati.
Mi guardò. « Cos'è? ».
Esitai. « Be’... Ho letto qualcosa nei giornali sul fatto che la demolizione dell'area è in ritardo. Mi sembra che l'articolo dicesse qualcosa su un turno di notte ».
« Infami senza pudore! », urlò. « Non mi possono neanche lasciare un'ultima notte! Prima di mattino saranno qui... proprio a questa casa! ». Si guardò, follemente intorno.
Il rombo e lo stridore di autocarri, bulldozer e altre apparecchiature di distruzione crebbe di volume.
Mi alzai, con l'intenzione di farlo ragionare. « Lei deve radunare i suoi documenti e oggetti personali e andarsene appena possibile », gli comandai. « Venga, l'aiuterò. Dopo tutto avrebbe dovuto già andarsene qualche settimana fa. ».
Si sedette. « Non lascerò mai questa casa », rispose con calma. « Lasciamo che vengano, dunque. È troppo tardi. Lei farebbe meglio ad andarsene ».
« Assolutamente no! », ribattei indignato. « Non posso lasciarla così ».
Scrollò le spalle. « Molto bene. È stato avvertito. Le conseguenze non saranno uno spettacolo piacevole. Sono stato... ». Si interruppe e cadde in uno spasimo di tosse convulsa che continuò ininterrotto. Sembrava che i polmoni gli venissero strappati a brandelli dal petto. Quando finalmente si placò, il sudore gli scorreva lungo il volto. Appariva così grigio, rugoso e spettrale che, mio malgrado, rabbrividii.
« Dato che non vuole andarsene », sussurrò, « tanto vale che le dica l'intera verità. Ricorda quella fotografia di strada che mi ha mostrato, quella presa nel 1842? ».
Annuii. « La ricordo bene. Mi aveva detto che la persona che le assomigliava in maniera così stupefacente era suo bisnonno ».
Sorrise debolmente. « Be', non lo era… ero io! »
Studiai da vicino la sua faccia. Anche se poteva essere pazzo, non stava di certo prendendomi in giro.
Decisi di dargli corda. « Molto bene. Mi lasci pensare, quella foto è stata scattata centotredici anni fa, e siccome lei dimostrava circa quaranta anni, adesso dovrebbe avere approssimativamente centocinquantatrè anni ».
Fece un cenno col capo. « I suoi calcoli, sono abbastanza corretti. Ma in realtà avevo già settantadue anni quando venne scattata quella foto nel 1842. Sono nato nel 1770 ».
« Vedo. Allora, se non sbaglio, lei ora ha centottantacinque anni? »
« Esattamente. Sono sfuggito alla corrente del tempo per oltre un secolo. Vivendo solo nel passato, giorno e notte, sognando il passato, ponendomi nel passato a forza di volontà, sono sopravvissuto ».
Fece una pausa, poi scosse la testa. « Ma ora sono perduto. La concentrazione, che da lungo tempo pratico, non è sufficiente da sola. Bisogna continuare ad esistere nello stesso ambiente. Bisogna avere attorno a sé molto del passato, molto che sia rimasto immutato. È essenziale. Sono sopravvissuto per anni, in un'isola che si riduceva conti­nuamente. Potrei ancora sopravvivere per breve tempo in questa stessa casa, ma ... ».
Gli si spezzò la voce e gemette. « No, non potrei. È troppo tardi, troppo tardi! La mia forza se ne è andata ».
La testa gli ricadde sul tavolo e pensai che fosse svenuto. Ma appena un cambio del vento portò distintamente il rumore dei macchinari, balzò su di nuovo.
« Non, possono lasciarmi in pace? Devo passare tra i tormenti le mie ultime ore? Le dico che quel rumore infernale mi sta strappando il cervello a brandelli! ». Urlò l'ultima parola e continuò a urlare. Era il grido incontrollabile di un pazzo.
Rimasi seduto senza parole, paralizzato, trafitto da quell'orribile suono.
Di colpo il gridare cessò, solo per venir sostituito dalla stessa tosse lacerante che lo aveva scosso prima. Questa volta era molto peggio. Mentre guardavo, inorridito, il sangue gli sgorgò dalla bocca.
Si alzò barcollando, graffiandosi la gola. Il suo volto era diventato letteralmente indescrivibile. Era grigio; ora era diventato nero. Le labbra si contorsero, mettendo in mostra denti gialli e marci. La carne e la cartilagine del naso avvizzirono. La pelle tesa sulle guance si spaccò, esponendo le ossa sottostanti. Sangue gli uscì dagli angoli degli occhi.
Rimasi senza parole, incapace di muovermi, incapace perfino di pensare, gli occhi fissi sul tremendo spettacolo. Non riuscivo a muovere la testa.
Per breve tempo continuò a barcollare in giro, lacerandosi la gola. I suoi occhi diventarono piccoli punti di luce nelle orbite che si andavano affossando. Il naso sembrò venir improvvisamente risucchiato, non lasciando niente tranne l'impressionante fossa di un teschio. La spaventosa smorfia dai denti gialli diventò quella di un cadavere le cui labbra si fossero decomposte.
Ondeggiò, urtò contro il tavolo e cadde al suolo. E mentre guardavo, come una statua di pietra colta nell'incantesimo di uno stregone, l'intera carne della faccia si sfaldò; mentre le mani gli scivolavano dalla gola, la pelle si annerì e disparve, e divennero le mani gialle, articolate di uno scheletro. Anche i capelli bianchi si staccarono dal cranio e scesero ondeggiando sul pavimento.
Gli abiti, che avevano già cominciato a disintegrarsi, si trasformarono in brandelli di stracci che poi si sbriciolarono del tutto.
Le ossa ingiallite dello scheletro diventarono marrone e cominciarono a ridursi in polvere. Alla fine non rimase nulla di visibile sul pavimento tranne frammenti di un cranio, femori e qualche dente sparso.
Finalmente, mentre la mia mente continuava a turbinare quasi in preda alla follia, riuscii ad alzarmi e mi precipitai alla porta. Come un animale impazzito, corsi giù dai gradini e mi buttai nella notte.
Raggiunta l'estremità di Cain Street mi fermai e mi girai, anche se non saprò mai cosa mi spinse a farlo. La casa di mattoni di Thaddeus Woolson stava già fiammeggiando. In fondo al mio cervello febbricitante capii cosa era successo: nella mia fuga improvvisa avevo fatto cadere la candela; il vento violento, infilandosi nella porta aperta, aveva attizzato il piccolo fuoco trasformandolo in una conflagrazione crescente che stava consumando tutta la casa.
Corsi senza fermarmi nella notte. Quando raggiunsi finalmente la mia abitazione, crollai, e in seguito stetti male per parecchi giorni. Il mio dottore all'antica disse che soffrivo di « febbre cerebrale causata da shock ». Non mi chiese mai quale fosse stato lo shock e io non mi offrii mai di spiegarglielo.
Appresi più avanti che la casa di Thaddeus Woolson era stata completamente sventrata. Dato che doveva venir demolita il giorno dopo, non era stato fatto nessun tentativo di spegnere l'incendio. Rimisero in piedi solo i muri anneriti, e anch'essi vennero presto abbattuti.
Non trovarono mai i frammenti di ossa nelle rovine. E siccome nessuno mi aveva visto lasciare la casa, la questione è chiusa.
Se è stata fatta qualche indagine riguardo a Thaddeus Woolson, non ne ho mai saputo niente.
Mi piace immaginare che, per sempre lontano dalla terrena marcia degli eventi, la sua ombra stia ancora vagando per le strade di qualche antica città persa nel tempo.

Traduzione di Sergio Bissoli

Joseph Payne Brennan



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