Sentieri selvaggi

Solitamente i due cacciatori non dividevano pasti con cinesi o indiani. Avevano una politica molto ferrea nei confronti delle altre etnie e preferivano di più braccarle, quando ne avevano l’opportunità, che non contarsi le cicatrici a vicenda o scambiarsi cortesie.
All’ospite di quella sera, però, non erano riusciti a negare un posto accanto al fuoco e un po’ di compagnia, vuoi perchè il luogo metteva una certa soggezione, con quell’umidità serpeggiante che scivolava silenziosa tra i fusti dei pini, vuoi perchè la curiosità li aveva sopraffatti.
L’ospite si sistemò più comodamente sulla sella abbandonata accanto alla fiamma e contemporaneamente mollò una robusta flatulenza. Ebbe un lampo tardivo di educazione mascherandola con un colpetto di tosse.
Nodens fu pilotato dal luccichio del coltello a lama larga per iniziare una conversazione.
“Quello ha proprio l’aria di un bowie” disse indicandolo, “Dove l’hai preso?”.
L’asiatico lo osservò con espressione annoiata bilanciando il sedere sulla sella, poi si tolse una caccola dal naso e la gettò nel fuoco. Quella fu la sua risposta.
Bennet lisciò nervoso il manico del fucile sdraiato accanto a lui e sputò un fiotto nerastro di tabacco dentro al fuoco. Quando Bennet faceva così e aveva quello sguardo voleva dire che una cosa non gli andava a genio e, del resto, non ci voleva un pozzo di scienza per capire dalle sue rughe d’espressione che non poche erano le cose che non gli andavano a genio.

Giravano molte chiacchiere giù in città su quanta gente strana ci fosse in giro. Certo i due erano vaccinati ad ogni genere di esperienza, soprattutto Bennet che aveva fatto la guerra ed era stato all’ovest. Tuttavia si trovavano entrambi in una zona al confine col Canada poco battuta dalle rotte commerciali e una faccia aliena come quella suonava molto inusuale fra quei boschi silenziosi. Non che mancassero le facce aliene lì intorno ma, come diceva il predicatore Malley di Amarillo: “Diffidate di chi non è bianco e cristiano!”.
In questo, Bennet era un bravo discepolo. Lui diffidava a prescindere...
L’ospite tirò fuori il coltello dalla cintura e prese a riscaldarlo lentamente alla fiamma.
“E’ proprio un bel coltello”, commentò di nuovo Nodens, “Davvero un bel coltello”.
L’uomo si chinò sul fuoco e annuì compiaciuto.
“Lo vendi?”.
Lo guardò come avesse sentito una bestemmia e Nodens si sentì intimidito, in profondità.
“Accidenti, amico!”, imprecò allegramente, “Avrai pur qualcosa da vendere. Sei pieno di pelli... non è forse ermellino quello che vedo? E’ difficile catturarlo in questa stagione, te lo compro a qualunque cifra”.
Bennet sputò nel fuoco ravvivandolo per un istante e quello che Nodens vide alla luce della fiamma non gli piacque per niente. L’uomo portava un bizzarro segno giallo sopra la casacca, e uno azzurro all’altezza del cuore che rappresentava una testa di lupo. Non era questo, però, a turbarlo, ma una sensazione molto più insidiosa che solitamente prende allo stomaco gli uomini più prudenti, o più vigliacchi.
L’asiatico, perchè di questo si trattava, non sembrava avere propositi bellicosi dietro la sua perenne espressione annoiata. Lanciando uno sguardo approfondito alla sua corporatura Nodens non riuscì a stabilirne la stazza sotto tutte quelle pelli che gli drappeggiavano le spalle. Ad occhio e croce sarebbe bastato un bel calcio sul naso per mandarlo a gambe all’aria, ma non si poteva mai dire. Bennet raccontava spesso di bravi ragazzi scozzesi e gallesi capaci di staccarti il naso a morsi se gliene davi l’opportunità. Ovviamente Gettysburg e Antietam avevano dato molte opportunità a tutti...
Senza pensare alla guerra, Nodens ricordava bene le risse che aveva fatto in gioventù nelle quali, molto spesso, quello che ti gettava nella polvere con un colpo alla nuca era il più piccolo “skinny puppy” dell’ammucchiata, perciò ritenne saggio mantenersi sufficientemente cauto.
L’asiatico si lisciò i baffi stentati ed emise una risata sommessa: animalesca, bassa e ritmata. Un uomo che vive tra altri uomini riconosce facilmente una risata del genere da quella sociale e cordiale, fatta per far divertire anche gli altri.
Bennet accarezzò il grilletto del fucile con un unghia sporca e quello fu il segnale perchè Nodens portasse un piede più vicino al fuoco. Rapinare non è un’attività alla portata di tutti, bisogna sapere il fatto proprio. Sia Bennet che Nodens avevano accumulato una buona esperienza in gioventù e la prima cosa che avevano imparato era conoscere bene l’obiettivo. L’America non era altro che una grossa cicatrice, che si spingeva anno dopo anno verso ovest e verso nord. Era normale che in essa confluisse la feccia del mondo, enfiandola e facendola pulsare fino a quando essa non si spostava per inerzia verso altre direzioni. Tempi duri richiedono scelte rapide e l’arte del derubare domanda molte ponderate riflessioni.
Quando l’asiatico ebbe arroventato ben bene la lama, un lezzo di ferro battuto solleticò le loro narici. Il coltello aveva una lama larga due pollici, di un arancione ormai magmatico.
Nell’istante in cui Nodens calciò la polvere del fuoco per accecare l’uomo, il coltello saettò di volontà propria e andò a conficcarsi nella gola di Bennet senza far rumore.
L’asiatico si alzò e si sgranchì le ossa mentre Bennet agonizzava senza un lamento, poi aggirò lentamente il fuoco e prese il fucile appoggiato accanto al moribondo.
Nodens vinse lo sconcerto che lo attanagliava alzando le mani in segno di resa.
“Piano, amico”, farfugliò pallido, “Stavamo scherzando. Uno scherzo tra amici”.
L’asiatico sorrise comprensivo, poi col calcio del fucile frantumò il cranio di Bennet e vi si accanì fino a quando le convulsioni del cadavere non cessarono. Con calma, cominciò a denudarlo.
Nodens aveva ancora le mani alzate che tremavano e, in quella posizione, sembrava uno di quei neri che cantano il soul nelle chiese battiste agitando i polsi al ritmo della musica.
Questo tizio sembra un cinese rincoglionito, ma non lo è, pensò, se muovo la mano verso la fondina, questo mi fa secco.
L’asiatico rovesciò il cadavere a pancia sotto e lo trascinò più vicino al fuoco, poi col coltello rovente incise tre tagli sulla nuca e sotto le ascelle. Con la punta seguì le linee dei fianchi fino alla cauda equina, dove li congiunse in un gesto svelto, simile a una firma in calce.
Nodens non represse nemmeno un conato: al secondo colpo di tosse vomitò il contenuto dello stomaco sul fuoco. L’asiatico imprecò e gli tirò un calcio in faccia perchè a causa sua la luce, adesso, stava languendo.
“Scusami amico”. biascicò Nodens. “Ho lo stomaco fragile da quando un Cherokee mi ha fatto un lavoretto sulla pancia”. Mentiva, ma non voleva dare all’altro l’impressione che la sua perizia nello scuoiare fosse riuscita a terrorizzarlo.
L’asiatico allargò il primo sorriso comprensivo della serata e si tolse il berretto di cuoio dalla testa. Sotto la casacca Nodens vide occhieggiare un’armatura metallica fatta a piastre, sovrapposte e dure, tanto da sembrare il guscio di un armadillo.
“No preoccupa” gracchiò serafico l’uomo. Nodens rabbrividì involontariamente e l’altro, fischiettando, si accinse a scuoiare Bennet.
Era bravo. Due giorni prima era stato proprio Bennet a raccontargli di cosa facessero i Sioux agli sventurati coloni che riuscivano a catturare.
“Prima ti ungono ben bene la schiena con del grasso di bisonte. E’ piacevole, quasi come un massaggio di una squaw, poi la pelle si ammorbidisce e cominciano a scuoiarti mentre sei ancora cosciente. A volte ti soffocano con un laccio, per non farti agitare troppo, ma sei sempre cosciente mentre lo fanno”.
Quel cinese invece non ne aveva bisogno. Rimuoveva la pelle come stesse esfoliando il tronco di un albero. Con gesti lenti, che si facevano decisi nei punti ostici, rimuoveva lembi di tessuto con la stessa olimpica calma con la quale un cuoco affetta il burro.
Bennet era sempre stato uno stronzo arrogante e inutile. Nodens lo aveva odiato fin dal giorno in cui si erano conosciuti alla diga e pensava che, se non fosse arrivato prima quel cinese, sarebbe incorso ugualmente in una fine infame. Nessun cristiano, però, meritava un trattamento del genere; lo avrebbe detto anche il predicatore Malley... no,forse una cosa del genere l’avrebbe detta piuttosto un predicatore metodista.
Nodens era un trapper ormai da cinque mesi, e aveva una certa dimestichezza con le pelli di animale perciò sapeva che la pelle umana non è così semplice da trattare. La cute non è abbastanza spessa, al contrario di quella del cuoio capelluto, e bisogna incidere con calma se non si vuole rovinare il lavoro. Quello che però il cinese stava facendo su Bennet era un trattamento che rivelava anni di esperienza, maturata sulla pelle di poveri diavoli.
L’asiatico gli sorrise di nuovo: “Tu guarda”, sussurrò.
Calò i calzoni di Bennet e incise i polpacci. Nodens avvertì un altro conato ma lo stomaco era vuoto, perciò l’effetto fu doloroso.
“Visto che belli?” disse il mongolo evidenziando i due lembi di tessuto appena tolti, “Servono per polsi. Bracciali. Bracciali ottimi di pelle!”.
Nodens allora ricordò un particolare che gli era sfuggito. Due giorni prima lui e Bennet si erano allontanati dalla foresta per barattare qualche pelle di scoiattolo in cambio di una bottiglia di whisky. Tornando lungo la strada avevano visto una strana costruzione eretta in una radura. Non era un tepee ma una tenda a pianta circolare, abbastanza grande da contenere quattro o cinque uomini, rivestita interamente di pelle tinta.
Bennet aveva insistito per andare a vedere ma Nodens aveva sempre fatto il contrario di Bennet e non ci si era voluto avvicinare. “Vai a sapere a quale ubriacone indiano appartiene...” aveva commentato.
L’uomo troneggiava sul fuoco basso. Uno scintillio ristette nei suoi occhi, ma solo per un istante.
“Sono per te quei bracciali?”, si sentì di chiedere Nodens. “Domandare è lecito, rispondere è cortesia”, pensò. Ma un suo piede cominciò a tremare irresponsabilmente pregustando, si fa per dire, la risposta.
L’asiatico scosse la testa.
“No per me”, disse poi, “Mio signore è principe decaduto. Lui vuole Segni di Potere” disse indicando i lembi di tessuto sanguinolenti, “Se io no porta lui questi Segni, nostra gente no ci accoglie più in nostro paese”.
Quando il cinese si girò sollevando una zaffata di afrore selvatico, Nodens capì che sia lui che il suo signore erano stati lontani molto tempo da una vasca da bagno. Si chiese anche come avesse fatto a identificare quell’odore visto che anche lui viveva ormai da mesi nei boschi e doveva possederne uno identico, se non peggiore...
Quando l’asiatico ebbe asportato i pezzi necessari si alzò in piedi e prese il fucile. Il coltello gli scintillava nella mano.
“Adesso vieni qui” sorrise gentile.
“Aspetta” disse Nodens “Vuoi le pelli? Te ne darò quante ne vuoi. Il tuo signore sarà contento per le mie pelli. Sono di prima qualità, sai? Me le comprano giù in città per venderle alle ricche signore dell’est. Il tuo signore non resterà deluso”.
L’asiatico emise un lungo sbadiglio.
“Mio signore no vuole altri Segni di Potere” rispose.
Il lampo nei suoi occhi gettò Nodens nel terrore più profondo: era pazzo, non c’erano altre spiegazioni.
“Mio Khan vuole mangiare” disse l’asiatico alzando il fucile.
Lo sparo sollevò alcuni uccelli notturni che si involarono nel cielo. Attirati da un odore familiare planarono su una radura, sopra una tenda di pelle. Dentro di essa un vecchio, avvolto in ricche vesti di seta, rise e singhiozzò. La fame lo aveva portato alla follia già da parecchi giorni.

Alessandro D'Anza