Ad un certo
punto tutto questo non ci bastò più: la ripetitività dei giorni stava cominciando a
stancarci, volevamo qualcosa che suscitasse nuove emozioni, qualcosa che riempisse i
nostri animi ancora di più. Decidemmo che era arrivato il momento di avere un bambino.
Smisi di prendere le pillole anticoncezionali e, tempo dopo, mi decisi a fare un test di
gravidanza. Risultò positivo.
Mi tastai il ventre, incredula.
- C'è una nuova vita dentro di me... -
Gli occhi mi si riempirono di lacrime.
Ero felice di questa nuova presenza, ma allo stesso tempo spaventata. Ero abbastanza
matura per crescere un figlio? E Matteo, col suo animo irruente, sarebbe stato un buon
padre? Sarei riuscita ad affrontare il parto? Erano domande che mi ero già posta prima di
fare questa scelta, ma adesso che il bambino stava crescendo dentro di me i dubbi mi
piombarono addosso con tutto il loro peso.
Lo dissi a Matteo. Vidi i suoi occhi spalancarsi dietro le lenti degli
occhiali. Urlò di gioia e sbatté un pugno sul tavolo così forte da far volare un
bicchiere a terra.
- Che idiota, - dissi divertita - ora il vetro rotto lo raccogli tu! -
Mi afferrò e mi sollevò da terra facendomi fare un giro completo.
- Cosa me ne frega del vetro rotto!! E' per una buona causa! - Mi schioccò un bacio sulla
fronte. - Come lo chiameremo? -
Ci pensai un po'.
- Se è femmina la chiameremo Diana, come la dea della natura selvaggia. -
- E se è maschio lo chiamiamo Jimmy! - ribadì lui - Come Jim Morrison! -
Salì sul tavolo con un salto, prese il cucchiaio a mò di microfono e cominciò a
cantare.
- Come on baby light my fire!! - mosse la testa su e giù facendo oscillare i rasta - Come
ooooon!! -
Lo dissi a mia madre. Mi aspettavo un'esplosione di collera, o almeno
una buona predica sulla morale e sul fatto che ero troppo giovane. Mi aspettavo che
s'infuriasse perché ero ancora una bambina io stessa, figuriamoci se potevo pensare di
saper crescere un figlio.
E poi c'era un'altra cosa. Avevo paura di parlarle di bambini. Quando accadde, ero troppo
piccola per registrare nella mente i fatti precisi. Ricordavo però un fratellino.
Ricordavo di averlo visto, accidenti! Quel corpicino roseo tra le braccia di mia madre. E
poi era sparito nel nulla. Non c'era più. In qualche ricordo sfocato vedo me stessa
chiedere alla mamma dov'era il fratellino. Lei piangeva e mi diceva che non avevo
fratelli. E tutte le volte che vedeva un neonato alla televisione si metteva a piangere.
Mi aspettavo quindi, oltre alla predica sulla morale, una sostanziosa crisi di pianto.
Inaspettatamente, mia madre scoppiò a ridere ed esclamò:
- Come? Di già? - mi abbracciò, entusiasta. - Sono una brava levatrice, io! Lo faremo
nascere a casa nostra, faremo tutto in famiglia! Come sono felice! Come sono felice!
Sentirò di nuovo il gemito di un bambino che nasce! -
L'abbracciai anch'io, sollevando un sopracciglio in un'espressione perplessa.
E arrivò il momento del parto. Non immaginavo che potesse esserci
qualcosa di così bello e allo stesso tempo doloroso. Urlai e urlai, mentre Matteo mi
stringeva la mano. Mia madre mi diceva di spingere, che mancava poco, che dovevo sforzarmi
solo un altro po'. Mi sentivo squarciare dentro. Finchè il dolore finalmente si
affievolì. Vidi un corpicino livido, urlante. Tesi le mani e gemetti. Volevo averlo tra
le braccia. Mia madre mi accontentò.
Era incredibilmente piccolo, morbido. Ed era mio figlio. Era qui, tra le mie braccia, con
gli occhi socchiusi, e fino a poco tempo prima non esisteva.
Guardai Matteo, lessi nei suoi occhi lo stesso stupore e la stessa gioia. Era il nostro
bambino.
La vista mi si appannò e caddi in uno stato di torpore.
Al risveglio, vidi Matteo assopito sulla sedia, accanto al mio letto.
Lo chiamai con la voce impastata, ma lui balzò in piedi come se avessi urlato.
Aveva gli occhi arrossati.
- Che ti prende? - chiesi - Dov'è il bambino? -
- Ce la fai ad alzarti? - mi chiese.
- Perché dovrei alzarmi? Dov'è il bambino? -
- Beh, ecco... -
Mi girava la testa. Che diamine stava succedendo? Avevano scoperto che il mio bambino era
malato?
- Voglio vedere mio figlio! - strillai.
- Calmati... -
- Non mi calmo! Voglio il mio bambino! Dov'è? -
Sentii un vago profumo d'arrosto provenire dalla cucina.
- Ma che avete tutti quanti! - gridai - Ho appena avuto un figlio e quella cretina si
mette a cucinare?? -
- Tua madre deve parlarti. Lascia che ti aiuti ad alzarti. - mi porse il braccio.
Mi appoggiai a lui, furibonda. Volevano tenermi all'oscuro di tutto! In quel momento
vedere mio figlio mi parve la cosa più importante. Poteva essere malato o down, non mi
importava, ma avevo bisogno di vederlo. Dovevo vederlo. Mi diressi verso la cucina
reggendomi a Matteo.
Mia madre era china sul piano cottura. Stava aggiungendo le olive all'insalata.
Appena mi sentì arrivare si voltò.
- Siediti, cara! - mi indicò la sedia.
La sua espressione raggiante mi disorientò ancor di più. Ad ogni modo, mi sedetti.
- Mamma, dimmi cosa sta succedendo! Lo voglio sapere! -
- Te lo spiegherò subito. Matteo, vorresti prendermi i tovaglioli dalla mensola in alto?
Ecco, sì, quelli. Grazie, caro. -
Apparecchiò la tavola con il servizio di piatti buono. Il profumo d'arrosto mi fece
brontolare lo stomaco. Ero indebolita per il parto e non mangiavo almeno da un giorno.
Nonostante l'ansia per mio figlio, scoprii di aver fame.
- Mamma! Parla! Dov'è il mio bambino! -
- Ascolta, cara. Tanto tempo fa una nostra antenata praticava riti di magia nera. Venne
accusata di stregoneria e così fu lasciata morire di fame in una cella. Ebbene, figlia
mia, quella donna era incinta. -
- E allora? Che c'entra mio figlio? -
- Possibile che ancora non capisci? - sorrise - La fame può giocare brutti scherzi alla
mente. La gatta mangia i suoi gattini e la donna... beh, può fare la stessa cosa. Ma si
pentì subito di quello che aveva fatto, o meglio, di quello che era stata costretta a
fare. Poco prima di morire, straziata dai sensi di colpa, pronunciò una maledizione. Ogni
donna della sua stessa famiglia avrebbe dovuto mangiare il proprio primogenito o sarebbe
morta. -
Spalancai gli occhi.
- Sono io la tua primogenita. - dissi. - Perché non mi hai mangiata? -
- Perché quella donna si riferiva ai bambini, non alle bambine. Era una vendetta verso
gli uomini che non capivano la sua sofferenza e l'avevano rinchiusa nella cella,
costringendola a mangiare il proprio figlio. -
Tutto mi fu terribilmente chiaro. L'arrosto... il profumo di arrosto. Cominciai a tremare.
- Tu... tu hai mangiato mio fratello! Hai ucciso il mio bambino! Lo hai... Oh, tu non puoi
costringermi a fare questo!! - strillai.
- Non intendo costringerti, cara. - sorrise di nuovo - La scelta è tua. -
Colma d'orrore, guardai Matteo.
- Io non voglio che tu muoia. - mi disse.
- Ma sei impazzito? - strillai - meglio la morte piuttosto che... -
Fui interrotta dal beep beep del timer. Mia madre corse ad infilarsi le presine.
- Oooh, è pronto! - esultò.
Aprì il forno. Prese la teglia con entrambe le mani e la posò sulla cucina.
Dalla mia posizione non potevo vederne il contenuto. Ma Matteo si. Lo vidi sbiancare in un
batter d'occhio.
Il mio stomaco brontolò.
- Tesoro, - disse mia madre - sta tranquilla. Sembrava una cosa orrenda anche a me. Poi
però ti abitui all'idea. Non è così terribile. E poi, la carne umana è incredibilmente
dolce. Soprattutto quando è così tenera! Quando avrai occasione di mangiarla se non
adesso? -
Prese un grande piatto e vi trasferì il contenuto della teglia.
Lo posò sul tavolo, davanti a me.
Lo vidi.
Vidi il mio bambino.
Dorato.
Croccante.
Una spruzzata di spezie.
Un rametto di rosmarino.
In mezzo a patate col sugo.
Mio figlio.
Mi sentii sopraffatta dall'orrore. Eppure la vista di quel piatto non mi disgustava. Non
riuscivo a provare nausea. Quel visetto dorato... ben cotto.
Stavo morendo di fame.
Mia madre sezionò tranquillamente il corpicino. Tagliò la testa, le piccole braccia, le
gambine. Divise il torace in quattro parti. Si sedette al suo posto.
- Perdonatemi se mi prendo la parte migliore! - disse, infilzando la testa con la
forchetta e portandosela nel suo piatto.
Tagliò il nasino e se lo portò in bocca. Masticò lentamente, gli occhi chiusi.
Sentii la fame crescermi dentro sempre di più. Sempre di più.
Matteo mi posò una mano sulla spalla.
- Fallo. - mi disse.
Presi la forchetta. Infilzai una gamba. Me la portai nel piatto. Poteva sembrare una
coscia di pollo se non ci fosse stato il piccolo piede. Ne staccai un pezzo con la
forchetta. Lo misi in bocca.
Un sapore dolcissimo. Mi chiesi come potevo aver vissuto fino ad allora senza conoscerlo.
Ne presi un altro pezzo e poi un altro e poi un altro. Poi mi avventai su un braccio e lo
mangiai con le mani, sporcandomi il viso di sugo. Matteo aveva ripreso un po' di colore
alle guance.
- E' buono? - chiese.
- Buonissimo. Somiglia alla carne di cavallo, ma è più tenero e più dolce. -
Matteo annuì. Continuava a guardare il bambino con occhi curiosi e affamati.
- Vuoi assaggiare? - chiesi.
Si leccò le labbra, imbarazzato.
- Posso? -
Mia madre gli rivolse un sorriso indicandogli la sedia.
- Ho apparecchiato anche per te, caro. Accomodati. -
Matteo si sedette. Prese un pezzo di torace, osservando le piccole costole.
- E poi si vantano di aver mangiato carne di serpente. - esclamò.