Una leggera
brezza si alzò nella notte, soffiando aria calda sulla pelle gelida di Acate.
Avanzò un poco ed i passi echeggiarono come colpi di tamburo nel silenzio del megaron. Il
grande cortile interno della casa spartana era illuminato solo dalla luce della luna
piena: le torce ed i bracieri erano spenti, gettati a terra o rovesciati nel caos della
lotta.
Con una mano si accarezzò la lunga barba nera e, lentamente, passò in rassegna tutto
l'ambiente. Provò a contare i cadaveri. Non era facile. Tre corpi erano semplicemente
proni sul selciato, feriti alla schiena. Schiavi imbelli: avevano tentato di fuggire.
Un quarto servitore, più alto e prestante, adesso era seduto ai piedi di una colonna, con
gli occhi sbarrati ed un filo di bava ad un angolo della bocca. Teneva ancora in mano una
lama, che pareva non essergli servita a molto: l'innaturale posizione della testa parlava
di un collo spezzato. Si avvicinò e si chinò ad osservarlo da vicino: impronte livide e
graffi, proprio sotto le orecchie. Gli passò una mano sulle palpebre e richiuse
definitivamente i suoi occhi: almeno lui era morto da guerriero.
Fin qui il conto era semplice. Ma almeno altre sette persone erano state fatte
letteralmente a pezzi solamente nel cortile. Tentò di contare le teste, ma non sembravano
coincidere con il numero delle gambe. Addirittura non riusciva a trovare un torso.
Camminò verso uno dei corpi mutilati e sentì un liquido denso e tiepido insinuarsi tra
la suola dei sandali e la pianta dei piedi. Il sangue correva a ruscelletti nelle
canalette di scolo dell'acqua piovana. Arrivò davanti al busto di un altro servo, privato
di ambedue le gambe, e si inginocchiò nuovamente.
"Nobile Acate?"
Appellato, voltò lievemente il capo verso l'interlocutore ed alzò un sopracciglio. Era
uno degli uomini che gli avevano mandato al seguito, un teraponte: un lacchè dei
gerontes, gli anziani. Era armato di tutto punto: l'elmo di bronzo rialzato sulla cima
della testa per lasciar libero il viso e la lancia in mano.
"Sì?"
"Nobile Acate, cosa sta succedendo dunque? Perché questa strage? Una vendetta forse?
Gli spartani sono inquieti..."
Il che voleva dire che si sarebbe riunita l'assemblea nell'agorà e che qualcuno avrebbe
dovuto fornire delle spiegazioni rassicuranti. E, ovviamente, i gerontes avevano
interpellato Acate per procurarle.
"No, non sembra opera della mano dell'uomo questa. Avvicinati, soldato."
Percepì chiaramente il fastidio dell'altro nel non essere chiamato nobile. Forte almeno
quanto l'irritazione causata dal non poter mostrarsi offeso.
Acate indicò col dito l'inguine mutilato del servo "Queste ferite non sono state
inferte con armi. La pelle pare lacerata, più che tagliata. E poi" indicò il collo
"questi lividi lasciano pensare ad uno strangolamento. Una mano molto forte, senza
dubbio..."
Il teraponte era più pallido del marmo delle colonne. L'incredulità, sommata alla
nausea, produsse una buffa smorfia sul suo volto.
"Ma allora chi..."
"Una fiera, soldato, un predatore notturno in cerca di cibo, forse sorpreso durante
la sua caccia."
"Una fiera? Allora dovremmo organizzare delle squadre, battere la campagna per
stanarla!"
Acate inarcò le sopracciglia, perplesso.
"Non credo che..."
Un aiutante del teraponte, anche lui in tenuta da guerra, si affacciò da una delle porte
che davano sul megaron e fece cenno al suo capo.
"Perdonatemi, nobile Acate." Il teraponte si avvicinò al soldato, confabularono
brevemente, poi ritornò verso di lui in tutta fretta. Alle emozioni scolpite sul suo viso
si era aggiunta la paura.
"Nobile Acate, sembra che non si riesca a trovare il cadavere di uno della casa! La
famiglia massacrata aveva un figlio, un bambino di appena... un anno..."
Nel cortile scese un silenzio imbarazzato. Il rapimento del rampollo di un nobile spartano
complicava decisamente la situazione. Ora all'orrore per l'accaduto si sarebbe sommata
l'inquietudine sui motivi del ratto. Gli anziani e gli indovini avrebbero cominciato ad
avere paura e gli sviluppi sarebbero stati imprevedibili.
"Soldato" disse Acate rialzandosi in tutta la sua statura "informa i
gerontes che ritengo opportuno tentare qualcosa da solo, prima di muovere degli uomini
armati. Se non avrò risolto il problema entro l'alba di domani, allora parlerò
personalmente all'assemblea e mi rimetterò alla loro parola."
Detto questo si avviò, impassibile come le pietre del selciato, verso l'uscita della
casa, calpestando noncurante il sangue che arrossava il megaron.
Del resto l'opportunità era davvero troppo attraente per non rischiare di sfruttarla.
Era già trascorsa un'ora di cammino da quando si era messo alla
ricerca del piccolo nobile. Sapeva che sarebbe stato inutile cercare nelle campagne vicine
alle mura della città, così era partito direttamente verso l'interno, verso le montagne.
Da circa un quarto d'ora avanzava lentamente sulle pietraie che costituivano le pendici
dei monti, la mano stretta alla lancia. Nella notte rischiarata dal plenilunio tutti i
cespugli sembravano nascondere ombre furtive; ogni alito di vento aveva la voce affannata
del respiro della bestia. I suoi occhi, abituati all'oscurità, si spostavano velocemente
da un masso all'altro, alla ricerca di un qualche movimento.
Fu la raffinatezza del suo olfatto a tradire la preda: l'odore acre che sentì ad un
improvviso movimento dell'aria non lasciava spazio ad interpretazioni.
Subito si immobilizzò e si guardò attorno, lentamente. Un anfratto, ad una decina di
metri da lui. Ringraziando gli dei di essere sottovento, si avvicinò silenziosamente
all'apertura nella roccia. Si sporse appena e vide la bestia. Un esemplare alto più di
sette piedi, la schiena ricoperta di lucido pelo nero, gli voltava le spalle intento a
spolpare una gamba, troppo grande per essere quella di un bambino. Era davvero fortunato:
le creature come quella solitamente cacciavano in branchi, mentre lei era sola. Lui
sottovento, lei distratta ed affamata. Da quella posizione sarebbe stato un colpo facile,
alle spalle. Ma l'onore imponeva delle regole.
Acate si erse in piedi , uscendo allo scoperto e urtando volontariamente le rocce con
l'asta della sua arma. La bestia voltò di scatto la sua enorme testa di lupo. Gettò via
gli avanzi del pasto e si alzò in piedi in tutta la sua colossale altezza. Le fauci, che
digrignavano e schiumavano, grondavano ancora sangue di nobile spartano. Gli occhi gialli
si erano stretti fino a diventare fessure, la gola ringhiava cupa e minacciosa.
Il mostro stava per balzargli addosso, quando si arrestò. Aveva visto la punta della sua
lancia ed aveva capito: era argento.
Fu questione di poco: il lupo mannaro scattò in avanti ed afferrò la sua mano destra con
la forza di un titano. Spalancò le fauci e lo azzannò alla spalla, quasi
staccandogliela. Acate strinse più forte il pugno attorno alla lancia ed urlò dal
dolore. La bocca spalancata rivelò i suoi canini innaturalmente lungi ed appuntiti. Vide
a pochi centimetri dagli occhi il collo della belva, vi affondò i denti e bevve
rabbiosamente il suo sangue. Sentì la furia dell'animale bruciargli nelle vene. Il lupo
si rese conto di quello che stava realmente accadendo, ma ormai era tardi: strattonò
violentemente per liberarsi dal morso del vampiro, ma così riuscì solo a farsi strappar
via un profondo brano di carne dal collo. Ora Acate era libero: cambiò rapidamente di
mano l'arma e l'affondò, diritta al cuore. Il mostro barcollò e cadde a terra. L'altro
predatore si chinò su di lui; nuovamente penetrò le sue carni coi denti e bevve, in
estasi. Sangue come quello non lo si trovava tutte le notti.
Dopo alcuni lunghi minuti si rialzò. La sua lunga barba nera grondava sangue, che cadeva
sulla pietra punteggiandola di rosso. Si tolse il mantello e si pulì il viso. Uno sguardo
alla spalla: la ferita si era già richiusa, all'alba si sarebbe rimarginata
completamente.
Ad un tratto un guaito, sottile come un capello di fanciulla, attrasse la sua attenzione.
Proveniva dalla grotta. Fece alcuni passi al suo interno e ne scoprì l'origine: due
lupacchiotti, tanto piccoli da essere ancora ciechi e spelacchiati, erano accoccolati in
un canto, vicino alla carcassa sventrata di un bambino. Una femmina che aveva appena avuto
i cuccioli, ecco perché era sola: temeva che i maschi del branco li potessero uccidere o
sbranare.
Acate impugnò la lancia e trafisse le due bestiole nel sonno. Non era poi una brutta
morte.
Con un lavoro lungo e disagevole decapitò la madre, avvolse la testa nel mantello e se la
caricò in spalla.
Non mancava molto all'alba e gli anziani desideravano una risposta da dare all'assemblea,
il giorno dopo. Si rimise in marcia.