Note di notte

Era una notte piovosa, il sottile fruscio della pioggia evocava attimi tragici, attimi di ispirazione omicida. Il ritmo frenetico del temporale si univa al violento flusso del sangue selvaggio che imperversava con sadico impeto la mente traviata dell'inquieto insonne sussurrandogli maliardi poemi di olocausto e incendi.
Era notte, e il tempo assumeva forme flessuose, attorniavano fosche di morbida angoscia fascinosa il volto delirante di colui che evocava il sonno.
Era come un richiamo, una nenia seducente, uscire nella notte e sposarsi con la pioggia, spargere sangue e morte, penetrare lentamente la propria lama nel cuore inutile del mondo, ridestarsi con l'aurora, nel grigio plumbeo dell'alba fradicio di pioggia e di fango, ridestarsi sulla propria tomba nel cimitero ancora avvolto dall'ombra e deliziarsi delle reminescenze dei notturni misfatti, ridestarsi e sapere d'aver appagato la propria sete di sangue.
Quanti racconti portava la notte che cullava il sonno della mediocrità, quella massa di sensibilità artificiale, palesemente fittizia, volgarmente svergognata eppure vituperevolmente reale.
Il successo che aveva quella massa ai suoi occhi era scarso al pari di una bella donna stretta in succinti abiti che ti offusca la vista, ti liquefa di desiderio, ma la donna inizia a parlare, le grandi labbra truccate si muovono e una stridula voce ti ghiaccia d'angoscia, più la donna parla e più vi si riconosce in lei una decomposta carcassa putrescente, inerte, così vomitevole nella sua falsa magnificenza, così inutile da renderne giustificato l'annullamento.
Era così il lento fluire dei suoi giorni, una bugia che egli stesso ignorava inebriato dai sorrisi che le puttanelle di bassa lega gli donavano.
E dormiva intanto il fanciullo veemente la cui bocca di giorno era gonfia di storpie parole saccenti, privo di occhi iniettati di sangue ignorava dell'insonne misantropo la veglia, privo di follia omicida, privo del naturale istinto che porta a sanguinare.
Dormiva beato nei suoi sogni da abbattere, recitava persino il suo sonno e non pregava affinché la luna splendesse più fulgida.
Pochi riconoscevano il segreto della mediocrità, il segreto degli sfavillanti pezzi di carne che incantano e pensano, pensano e non credo sia loro diritto.

Era stanco, lacerato dalla sua reale condizione e dalla volontà di renderla alta, serafica. La volontà di espellere mediante le proprie mani ogni goccia del suo odio, un odio che mutasse in un espiabile dragone di fulgida trascendenza, un odio egemonico che al pari d'un amore immenso avvolgesse il mondo come il giorno e la notte e cantasse le gravide, pompose note di cotale potenza.
Era stanco e vagava nella notte, inerte, un colosso che invitava il mondo a colpire investito da una eroica maledizione. Sorridente, eppure agonizzante e solo al chiaro di luna, sudicio della terra di un cimitero nella fredda notte d'autunno.
La conoscenza è un delirio iconoclasta, egli rievocava con rimpianto i tempi in cui moriva inconsapevole. Vi è chi si limita a conoscere, o chi fa del limite l'oggetto da annichilire.
Era stanco e costretto a sanguinare, non serviva padroni ma era uno schiavo, idealizzò mille notti d'incanto, poiché credeva d'aver visto in uno sguardo la chiave dell'infinito, l'incarnazione del tutto, l'assoluto racchiuso in un'ampolla, l'universo e tutte le sue leggi.
Ma un frutto amaro germogliò nel suo petto e i suoi veleni lo contaminarono della febbre della follia. Nemmeno più il ricordo di quegli occhi aveva senso.
Massacrò le proprie carni cercando il tutto, il tutto che non era parole, non era gesti, ne tanto meno illusione, bensì pura, eterea energia, una fiamma virulenta che espande vampate di sacra essenza.
Era stanco e abbatteva le tombe del cimitero, trafiggeva il proprio petto e ornava di sangue le sue lacrime; il tutto era lì, d'innanzi a lui, doveva solo riconoscere se stesso e condurlo via con sé sulle ali nere ed eterne della notte.

Davide Giannicolo