Mi sveglio
di soprassalto, con il cuore in gola, le lenzuola bagnate di sudore attorcigliate alle mie
braccia. Tiro il respiro un paio di volte, con fatica, come se un macigno gravasse sul mio
petto, prima di riuscire a respirare regolarmente. Deglutisco a stento saliva secca e
allontano da me con disgusto il cuscino madido. Solo allora apro gli occhi: dalle imposte,
filtrano livide lame di luce lunare. Tossisco, a lungo, finché il pizzico che mi tortura
la gola sparisce, d'improvviso, come era comparso.
Un incubo, solo un dannato incubo: si dice che al risveglio, i sogni si dissolvano in
fretta, eppure io ricordo distintamente tutto, come se lo avessi vissuto.
Quella donna minuta sulla sessantina, gli occhialetti sulla punta del naso, un casco di
capelli tinti di rosso, è una psichiatra. Nessuno me lo ha detto, né ho letto i diplomi
incorniciati appesi alle pareti dello studio, o l'intestazione dei fogli che lei legge e
rilegge, scuotendo il capo. Lo so, e basta. La dottoressa posa i fogli sul ripiano di
vetro della scrivania e si lascia cadere pesantemente sulla poltroncina foderata di pelle.
Sfila gli occhiali, massaggia con due dita la base del naso, con gli occhi socchiusi, poi
li inforca di nuovo. Apre un'agenda a colpo sicuro, legge a fil di labbra un numero di
telefono ed afferra il ricevitore. Le sue dita sfiorano appena la tastiera, come se ad
ogni numero venisse percorsa da una scossa elettrica. Quando una voce risponde all'altro
capo del filo, la psichiatra comincia a parlare con frasi brevi e secche, quasi volesse
impedire al suo interlocutore di interromperla. La malattia del suo paziente si sta
aggravando, e la terapia non ha dato alcun risultato: è inutile tergiversare, se chi è
in ascolto non accetterà di farlo volontariamente, sarà lei stessa a richiederne il
ricovero in una struttura adeguata.
La donna tace improvvisamente, poi mormora un nome,
così piano che non riesco a distinguerlo, sebbene mi sembri di essere lì, vicino a lei,
forse dietro la vetrata liberty della porta che separa lo studio dal soggiorno. La
psichiatra attende ancora, finché percepisce distintamente il click all'altro capo del
filo. Riaggancia sconcertata, gettando un'occhiata all'orologio che segna le diciotto.
Adesso mi sembra di soffocare nuovamente: scalcio via le lenzuola e passo una mano sulla
fronte imperlata di sudore freddo. Cerco di scacciare il pensiero, ma quel dannato incubo
si è impadronito della mia mente e scorre implacabile come un film.
La psichiatra scrive l'indirizzo su una busta, che con un sospiro di soddisfazione lascia
cadere sulla pila di corrispondenza posata su un vassoio d'argento. Infila la penna in un
barattolo di legno, accanto ad un tagliacarte dal manico di madreperla: allungando il
braccio, scopre il polsino quel tanto che basta per accorgersi che il suo orologio segna
le venti. In quel momento, un rumore secco e morbido al tempo stesso, come un ramo di
legno umido che si spezza sotto il peso di una scarpa. Aggrottando la fronte, la donna si
sporge sulla soglia dello studio: il piccolo corridoio è immerso nel buio. Lascia
scivolare una mano sulla parete, finché trova l'interruttore. Quando la luce illumina
l'ambiente, sobbalza spaventata, soffocando un grido, alla vista della figura vestita di
nero. Ma è solo un cappotto appeso ad un gancio d'ottone, sul quale è posato un
cappello. Scrollando il capo, la dottoressa preme nuovamente l'interruttore. Siede dietro
la scrivania, i palmi delle mani sui fogli che aveva letto qualche ora prima, quando
d'improvviso viene colta da un terrore irrazionale. Meccanicamente, afferra il
tagliacarte, apre la busta gialla in cima alla pila di corrispondenza, e vi infila i fogli
ripiegati. Poi, richiude la busta e la rimette al suo posto. Quando si accorge dell'ombra
nascosta dietro la vetrata liberty, resta immobile, incerta se afferrare il telefono o il
tagliacarte. Lentamente, la figura esce dall'ombra, il ticchettio dei tacchi a spillo che
sembra scandire il tempo, l'impermeabile nero e gli occhi nascosti dietro gli occhialoni
scuri. Vorrei distinguere i tratti del suo viso, incorniciato dai lunghi capelli dorati,
lisci come la seta, ma il riflesso metallico sulla lama del rasoio che impugna mi attrae
con una forza quasi ipnotica.
Ho freddo, tanto, un tremito inarrestabile agita le mie gambe. Con gli occhi sgranati
nella penombra, riesco a voltarmi abbastanza per fissare la soglia della stanza da letto.
Nessuno, è ovvio. Un incubo, solo un maledetto incubo. Trattengo un risolino isterico,
afferro un lembo del lenzuolo e mi asciugo la fronte e le braccia bagnate di sudore.
Adesso basta, mi alzo e bevo qualcosa di forte, mentre aspetto con le luci accese che
venga il mattino. Prima, però, devo interrompere il nastro del film che viene svolto
implacabilmente nella mia mente stremata.
La chiazza di sangue si allarga sotto il busto della psichiatra, riversa sul piano di
vetro della scrivania, ed un rivoletto finisce per cadere in gocce sottili sul parquet
lucido. La figura avvolta nell'impermeabile pulisce la lama del rasoio sulla manica della
sua vittima, prima di richiuderlo con uno scatto secco. Una mano infilata in un guanto di
pelle nera apre l'agenda e lascia scorrere un dito sul numero di telefono che la
psichiatra aveva composto poche ore prima. Rabbiosamente, straccia la pagina,
l'accartoccia e se la infila in tasca. Apre i cassetti, uno dopo l'altro, sempre più
freneticamente, poi le ante di un armadio, sul cui ripiano è posato uno schedario. Legge
uno dopo l'altro i nomi dei pazienti, senza trovare ciò che cerca. Le mani strette a
pugno, la persona si allontana lentamente, dopo aver gettato un'occhiata distratta alla
rigonfia busta gialla in cima alla pila di corrispondenza adagiata sul vassoio d'argento.
Sulla porta dell'appartamento, sfila gli occhialoni e se li infila in tasca, poi con un
gesto teatrale strappa via la parrucca bionda, rivelando i corti capelli corvini.
Ho capito, ieri sera ho rivisto quel film, poi ho anche bevuto troppo e... Ma sì, tutto
torna, ho mischiato un po' i personaggi e la trama, ma adesso ho capito. Una sbronza ed un
incubo. Il film proiettato nella mia immaginazione è finito, ne sono sicuro. Non sento
più freddo, il sudore si è asciugato e mi sento la mente lucida. Forse è meglio che
cerchi di riaddormentarmi, domani mattina devo essere fresco e riposato. Devo incontrare
quattro clienti, per il rinnovo delle polizze che hanno stipulato con la mia agenzia di
assicurazioni. Dovevo preparare i prospetti, ma non ho fatto in tempo, ecco perché mi
sono portato a casa sia le pratiche che la corrispondenza inevasa.
La posta. Ho freddo di nuovo, improvvisamente, una goccia di sudore mi scivola sulla
tempia e le mie dita, strette attorno alla cucitura del lenzuolo, sono sconvolte da un
tremito inarrestabile. Nel silenzio che avvolge l'appartamento, percepisco un suono che mi
sembra di conoscere, un rumore secco e morbido al tempo stesso, come un ramo di legno
umido che si spezza sotto il peso di una scarpa. Poi, un raschiare sommesso accanto alla
porta d'ingresso. Istintivamente, mi alzo dal letto e mi affaccio sulla soglia del
corridoio. Lascio scorrere una mano gelida sulla parete, lasciando un'impronta sudata,
fino a trovare l'interruttore della luce. Il corridoio e il vestibolo sono deserti. Questo
maledetto incubo mi sta facendo impazzire. Masticando un'imprecazione, mi avvicino al
comò su cui ho posato la mia borsa, accanto al telefono. Faccio scorrere la lampo ed
infilo una mano al suo interno, che ritraggo stretta ad una manciata di lettere. Le getto
sul ripiano di legno, sparpagliandole freneticamente. La busta gialla, rigonfia, è
l'ultima. Chiudo gli occhi, li riapro, sbattendo le palpebre, scuoto il capo, borbotto
qualcosa che non riesco a distinguere. Afferro il ricevitore e lo accosto all'orecchio, ma
l'apparecchio resta muto.
La figura sulla soglia della camera da letto indossa un impermeabile scuro: alla luce
della luna che filtra livida attraverso le imposte non riesco a distinguere i tratti del
suo viso incorniciato dai lunghi capelli biondi, lisci come la seta, ma solo i bagliori
riflessi dalla lama del rasoio, che stringe nella mano guantata.