L'inferno

Entrai di corsa e chiusi subito la porta a chiave. Ero ancora tutto bagnato. Senza fiato e con gli occhi spalancati verso il vuoto. Respiravo a fatica e, preso da una stanchezza improvvisa, mi sedetti a terra con la schiena appoggiata alla porta d’ingresso. Era quasi mezzanotte e fuori non aveva ancora smesso di piovere. Mille pensieri mi stavano passando per la testa, ma quando cercai di fare chiarezza, tutto nella mia mente si azzittì. Mi guardai le mani: erano ancora chiazzate di rosso. Ricordai ed inorridii. Dovevo dimenticare. Mi alzai in piedi ancora frastornato. Mi guardai intorno e mi diressi vicino alla finestra. Spostai un po’ la tendina e guardai fuori. Cerca una strana quiete lì fuori che contrastava con ciò che invece stavo sentendo nella mia mente. Mi sembrò di impazzire. Mi sedetti sul divano e mi slacciai l’impermeabile.
Ad un tratto, bussarono alla porta. Mi alzai di scatto. Non avevo il tempo di lavarmi le mani, così dopo una breve ricerca, trovai vicino al telefono i miei guanti di pelle. Li indossai e mi avvicinai alla porta. Chiesi: “Chi è?” e dall’altra parte risposero: “Polizia! Apra la porta!”
Mi diedi con le mani una veloce pettinata ai capelli, improvvisai un sorriso che pretendeva di essere credibile ed aprii.
“È lei il proprietario di questa casa?”
“Sì, sono io, posso esservi d’aiuto?”
I poliziotti mi squadrarono dalla testa ai piedi cercando di cogliere in me un qualunque particolare compromettente. Cercai di nascondere le mani dietro la schiena con disinvoltura.
“È vostra l’auto qui fuori?”
“No… la mia auto è a riparare… non so di chi sia.”
I poliziotti sembravano perplessi, poi continuarono.
“Va bene. Signor…”
“Davies, mi chiamo Jill Davies.”
“Va bene signor Davies, se dovesse notare qualcosa di strano ci avvisi.”
“Ci può contare…”

Li salutai e chiusi la porta. Avrei dovuto pensarci prima all’auto. Non avrei dovuto parcheggiarla fuori casa. Ormai comunque era troppo tardi. Guardai fuori dalla finestra senza farmi vedere. Erano ancora lì che stavano facendo rilevamenti intorno all’automobile. Tra poco avrebbero infranto i cristalli e trovato i miei documenti. Dovevo fuggire! E alla svelta!
C’era una finestra sul retro della casa. Potevo svignarmela da lì. Ma prima dovevo eliminare le prove ed in casa mia ce n’erano molte. C’era solo una cosa che potevo fare. Presi del whisky e dei fiammiferi. Qualche minuto dopo il tappeto iniziò a prendere fuoco e simultaneamente i poliziotti incominciarono a bussare insistentemente alla porta. Andai sul retro mentre l’interno dell’abitazione diventava sempre più un inferno. Le fiamme presto avvolsero ogni cosa. Uscii all’esterno e, per fortuna, non c’era nessun poliziotto. Iniziai a correre veloce attraverso l’oscurità. Pioveva ancora. Entrai in stretti vicoli pieni di pozzanghere e rifiuti. Lì sarebbe stato difficile trovarmi. Mi fermai un secondo per capire se potessero essermi alle calcagna, ma non mi sembrò di sentire nulla, se non il mio respiro affannoso ed una voce rauca che, dall’ombra, chiamò il mio nome.
“Jill?”
Sobbalzai spaventato. Chi poteva essere a quell’ora della notte? Chi poteva sapere il mio nome?
Cercai nell’oscurità da dove provenisse quella voce e trovai un volto, seminascosto nelle ombre di quel vicolo. Doveva essere un barbone. Era un vecchio dalla pelle scura con un grosso cappello a falde larghe in testa.
“Chi è lei? Come fa a sapere il mio nome? Io non la conosco…”
“Jill, perché corri? Cos’hai fatto di così grave per fuggire via così in fretta?”
“Si può sapere chi sei? Cosa vuoi da me? Hai visto tutto, vero? Sei un fottutissimo testimone, vero??? Lasciami in pace! Cosa vuoi? Soldi? Ne ho quanti ne vuoi… quanti ne vuoi!”
L’uomo sorrise ed abbassò lo sguardo.
“Non voglio i tuoi soldi Jill. Non basterebbero mai a pagare il tuo crimine… lo sai?”
Io non capivo. Non voleva i miei soldi. Ma allora cosa poteva volere da me quel vecchio?
“Allora cosa vuoi da me? Tornatene da dove sei venuto e lasciami in pace!”
“Tornare da dove sono venuto? Dall’oscurità?”
Sorrise nuovamente.
“Jill, non ha importanza chi sono. Piuttosto, tu! chi sei tu? Non sei lo stesso uomo che sei stato ieri e nemmeno chi credi di essere. Pensi di essere il migliore, l’hai sempre creduto. In realtà, non sei nemmeno una persona comune, perché se fuggi vuol dire che hai qualcosa da nascondere. Se fuggi, vuol dire che sei colpevole! Ragazzo, cos’è successo poche ore fa? Non nasconderlo a te stesso, riconosci i tuoi errori, non soffocarli nelle nebbie dei ricordi.”
“No… non è successo niente!”
“Così per te uccidere è niente?!?”
L’uomo fece due passi dall’oscurità verso di me. Ora lo vedevo meglio, era pieno di cicatrici in viso. Mi sembrava un volto conosciuto, eppure non ricordavo chi fosse.
“Cosa vuoi da me? Lasciami in pace? Ti darò tutto quello che vuoi, ma lasciami in pace!”
“Proprio tutto?”
“Sì!”
“Va bene. Voglio la tua anima!”
A quel punto pensai che l’uomo che avevo di fronte doveva essere un pazzo. Preso dalla collera, gli saltai addosso e lo spinsi verso il muro alle sue spalle. Lui sbattè la testa contro un tubo metallico e cadde a terra privo di sensi. Vidi il sangue sulla parete. L’avevo ucciso? Potevo averlo ucciso? Non era così. Dopo un attimo di silenzio, l’uomo riaprì gli occhi e si rialzò, come se nulla fosse successo. Indietreggiai impaurito.
“Cosa credevi di fare? Non puoi uccidermi, perché per oggi hai già ucciso. Non ne hai avuto abbastanza?”
“Vuoi dirmi chi sei? E come fai a sapere tutte queste cose? Cosa vuoi da me!?!”
“Jill Davies, oggi stesso, ti dico, tu giacerai all’inferno!”
A quel punto, un forte tuono spezzò il cielo in due ed io caddi a terra disperato.
“Non esiste l’inferno! Io non credo. Non può esistere!”
“Ah sì? Certo, non è come hai sempre creduto. Non è come è descritto sui libri. È molto peggio! Ero venuto qui per salvarti, ma quest’ultimo gesto ti ha compromesso per l’eternità. Ora ti rimangono davvero pochi attimi ancora. Cerca nel tuo cuore, cerca di capire quello che hai dentro.”
Le mie lacrime iniziarono a mescolarsi alle gocce di pioggia e quei tristi ricordi affollarono la mia mente. Ora non potevo più scacciarli via.
“Jill, guarda dietro di te.”
Mi voltai. Non riuscivo a credere ai miei occhi, era lei. Ma come poteva essere? Era morta. L’avevo uccisa io poche ore prima. Mia madre, in tutto il suo splendore, mi si avvicinò lentamente e mi appoggiò una mano sulla testa. Potevo sentirla, quasi come se fosse ancora lì con me. Ma sapevo che non poteva essere così. Doveva essere un fantasma… un fantasma della mia coscienza che era venuto a trovarmi dall’abisso della mia anima, dove risiedono i ricordi più tristi, quelli che si vogliono dimenticare. La vidi in volto: sembrava triste. Non potevo sopportare ancor più il suo sguardo. Chiusi gli occhi.
“Basta! Ti prego, falla andare via! Non ce la faccio più!”
Ma la visione non scomparve, anzi, mi parlò.
“Perché l’hai fatto Jill? Ero tua madre! Perché non mi hai parlato prima di agire? Avremmo potuto risolvere ogni cosa…”
Preso da mille sensi di colpa e dalla commozione, scoppiai a piangere. Cercai allora di abbracciarla, ma l’attraversai da parte a parte, quel triste fantasma.
“Non volevo arrivare a tanto, mamma… Non so cosa mi ha preso in quel momento! È stato più forte di me… scusami!”
“È troppo tardi figlio mio. Mi dispiace, ma è davvero troppo tardi.”
Così dicendo, scomparve. Allora, mi rivoltai, ma era scomparso anche il vecchio. Ad un tratto, sentii delle urla. Era la polizia, mi aveva trovato. Cercai la fuga, sentii un altro tuono, ma mi accorsi subito dopo che non proveniva dal cielo.
Le forze mi abbandonarono, persi l’equilibrio e caddi a terra, sull’asfalto bagnato di quello stretto vicolo. Con le ultime forze che mi rimanevano, mi tolsi un guanto e osservai nuovamente la mano destra. Era ancora sporca di sangue. La lavai lentamente in una pozzanghera lì vicino. Vedevo le gocce di pioggia cadere nello specchio d’acqua vicino al mio viso. Erano belle, silenziose. Le osservavo col sorriso sulle labbra. Non riuscivo a muovermi e il forte freddo che mi aveva preso fino a quel momento mi stava anch’esso abbandonando. Lentamente anche la mia mano era ritornata pulita ed il rosso del sangue di mia madre ora aveva sporcato l’acqua della pozzanghera. Poi, la vista mi si annebbiò. L’ultima cosa che vidi, furono i visi dei poliziotti che correvano verso di me. Sorridevano, felici di avermi beccato. Alla fine, tutto si oscurò e fu il silenzio. Non capivo se stavo sussurrando, oppure erano solo i miei pensieri che sentivo e mi rimbombavano nella testa.
“Non voglio finire all’inferno! Non voglio finire all’inferno!”, ripetevo in continuazione dentro di me. Era ancora buio. Ormai, ero solo pensiero e nulla più. Nel buio più oscuro, solo un pensiero offuscato. Lo ero, come lo sono ancora adesso. Sono solo. Perso. Ora so cos’è l’inferno. È la solitudine dell’eternità. Solo ora capisco.

Giorgio Pastore

Mi chiamo Giorgio Pastore, sono nato nel 1976 e una delle mie tante passioni è scrivere. Ho tanti lavori che vorrei vedere un giorno pubblicati, è un mio sogno, e credo che i sogni possano anche diventare realtà, basta crederci.