Il rito

C'era un bel calduccio sotto le coperte, Angelo tirò la testa da lì sotto e saltò giù dal letto, erano le sei del mattino. Si alzò per ultimo. A parte il suo fratellino, che rimase a letto, era il più piccolo nella masseria e godeva di qualche privilegio.
La festa gli piaceva, anche col freddo. Anzi, forse proprio il freddo, il velo di nebbia e l'atmosfera magica e misteriosa eccitavano la sua fantasia di ragazzo.
Si ripeteva ogni anno la festa. E rimase tale per l'ultima volta.
- Ti sei svegliato, finalmente.
- Beh sì, papà. - Si stropicciò gli occhi.
- Prepara una macchinetta di caffè - disse la mamma -, lo sai che qui aspettano, - sorrisino dolce, - tutti te.
Suo padre era un frutto della sua terra, di poche parole, ma gli bastava uno sguardo per farsi capire. Sua madre invece si faceva capire benissimo. Sempre la stessa storia, lo rispedì in cucina a fare il caffè. Non aveva visto nulla. A che punto erano i preparativi? Era già stato fatto tutto? No, non era possibile, si sarebbe svegliato se avesse sentito le grida. E poi erano tutti lì che correvano e armeggiavano come formichine.
Ritornò col caffè e gli occhi ancora gonfi, secondo me non si era lavato la faccia per l'eccitazione.
Era tutto pronto.
Il tavolaccio di legno, le ciotole col sale sul fondo, il pentolone con l'acqua bollente, le funi, i ganci di ferro e l'alloro, e più in là, su un tavolino apposito, in bella mostra, le lame allineate di coltelli d'ogni dimensione. Lame larghe e lucenti o strette e lunghe, di coltellacci e mannaie di ogni tipo.
Era il suo tavolo preferito, il tavolo degli uomini. Le donne si occupano d'altro in certe occasioni, raccogliere il sangue, per esempio.
C'era un coltello anche per Angelo. Per la prima volta.
- Che dici dobbiamo lasciare qualcosa?
- Non dire stupidaggini, io non ci credo.
- Ti assicuro che è così, stava per venirmi un colpo.
- Si vede che gli piace la tua cavalla, il mio porco che centra.- Risero tutti.
Angelo si avvicinò curioso. "I soliti discorsi che fanno i grandi intorno al fuoco", pensò.
A sentire loro, le campagne intorno erano infestate d'ogni sorta di spettri: uomini senza testa, asini con orecchie di fuoco, cavalli montati da mostri malefici, teschi ghignanti nelle cavità degli alberi, e soprattutto streghe e monacielli.
Da una settimana, poi, nella masseria non si parlava d'altro. La cavalla di zio Peppe era stata intrezzata da uno spirito.
Le trecce. Anche Angelo le aveva viste sulla testa della cavalla. La strega, è lei che di notte ruba la cavalla per volare chissà dove. Poi, all'alba, la riporta nella stalla tutta sudata. Almeno così immaginava Angelo.
Angelo, una notte aveva sorvegliato la stalla dalla finestra della sua cameretta, ma a parte qualche rumore strano non aveva visto nessuna strega nei paraggi.
Guardò il papà discutere con gli zii.
- Secondo me, gliele fai tu - disse suo padre allo zio.
- Non scherzare, io esco pazzo, - continuò zio Peppe, tra le risate generali, - il catenaccio l'ho trovato chiuso… forse non è la strega, può essere che è il monaciello, e tu lo sai, se uccidiamo il porco e non gli lasciamo un pezzo da parte, so' guai.
Il monaciello è uno spiritello simpatico, dev'essere, per come lo immagina Angelo, un nanetto gobbo vestito da frate che abita le vecchie case della masseria e regala monete d'oro alle famiglie che lo coccolano, ma diventa maligno se trascurato o deriso.
La mattina promette bene, pensò Angelo, con un po' di fortuna posso vedere il monaciello, non mi pare vero. Metterò da parte un po' di sangue e quando viene a prenderlo lo acchiappo. Anche se non mi lascia le monete d'oro non m'importa, posso chiedergli qualcosa… posso vedere cosa nasconde sotto il cappuccio, forse è un orco come quello delle fiabe.
Si perse in quei pensieri. I grandi intorno non li sen-tiva più, erano solo una specie di musica di sottofondo della quale non capiva le parole.
Lentamente si avvicinò al tavolino come il chirurgo in sala operatoria e impugnò un coltello. La lama brillò alla luce del mattino, lo infilò nella tasca posteriore dei pantaloni mentre un urlo disumano lo risucchiò alla realtà. Angelo si girò.
Suo padre puntò i piedi per terra in quell'istante e tirò la fune. Il laccio vibrò con un suono sordo in aria e si strinse sul muso del maiale che continuò ad urlare come una bestia infernale, piantando gli zoccoli e tirando nella direzione opposta.
- Datemi una mano, - urlò, sbuffò e poi aggiunse - tiriamolo fuori di qui.
- Io lo prendo per la coda.
- Io lo prendo a calci in culo, se non si muove lo scanno qui per terra, quant'èvveroiddio.
Erano tutti come animali in quel momento, lavoravano in branco e il loro obiettivo era uccidere.
Una guerra rituale, come gli uomini delle caverne che Angelo aveva visto sul sussidiario.
In quattro spinsero il maiale verso la tavola, il papà di Angelo tirò ancora la fune e il porco sputò un grido che sapeva di bruciore, schiuma bianca e sangue rappreso.
- Passami il bastone e pronti al mio tre -. Infilarono il bastone di ulivo fatto ad arco sotto la pancia della belva accerchiata.
Uno. Due. Tre.
Il maiale si ritrovò, con un balzo rumoroso, steso sulla tavola, con la testa penzoloni a trenta centimetri da terra. Lo legarono con le funi alle assi, finché il suo urlo si mutò in un rantolo rauco e soffocato.
- Tocca a te, Angiolè'. - Con la lama del coltello, suo padre, pulì dai peli folti la luna di pelle da penetrare.
Oddio. Angelo tirò fuori il coltello e si avvicinò. Aveva la bocca secca. Il maiale, ad occhi chiusi, emise uno strano grugnito e defecò fumoso.
La mano gli tremò, appoggiò la punta del coltello sulla cotica bianca del collo, la lama ondeggiò come stesse per squagliarsi. Nel suo corpo in tumulto, come un vulcano pronto ad esplodere, risalì una forza liquida.
Le tempie infuocate cominciarono a pompare a ritmo del cuore. Affondò la lama. Sentì un brivido ai testicoli.
Schizzi di sangue in faccia. Urlo animale.
Solo suggestione. Niente di tutto questo.
- Va bene, non te la senti, lo faccio io.
- L'anno prossimo andrà meglio.- La mamma tirò Angelo per un braccio e nello stesso istante che lui iniziò a piangere lo mollò per correre a parare il sangue che usciva a cascata colorando la testa penzoloni del maiale.
Angelo era solo un bambino. In quel momento ne ebbe una conferma liquida, bagnandosi i pantaloni, non era mai successo prima. Strinse più forte il coltello fino a sbiancare le nocche della mano sinistra. Rimase immobile a fissare tutte quelle formichine agitarsi intorno al maiale sporco di sangue, merda e piscio.
Morse l'interno della guancia, sentì il sapore dolce di sangue in bocca.
Poi successe.
Incredibile. Successe.
Il monaciello spuntò alle loro spalle. Ed era proprio come doveva essere. Un esserino vestito da frate e senza testa. Anzi, la testa ce l'aveva, solo che era nascosta da un cappuccio. È venuto a reclamare la sua parte di maiale, pensò Angelo. Vuole vendicarsi.
Scattò verso sua madre con in bocca un suono strano.
Un pianto, avrebbe detto tanto tempo dopo, Angelo.
Ora le salta al collo e le divora la faccia, pensò.
Cosa posso fare. Perché nessuno lo ferma.
Ridono inteneriti. Possibile?
Terrore.
Impazziti. Tutti impazziti.
La paura lo fotteva.
Quel coso uccide la mamma. Uccide la mamma.
Il terrore lo paralizzò per un lungo secondo, poi alzò il coltello sopra la sua testa e corse alle sue spalle.
Era più veloce dell'esserino frignante.
La mamma aprì le braccia per accogliere l'orco e Angelo sentì il padre urlare un no eterno e disperato.
La lama scese lenta e nera nella coperta e ne uscì rossa come di un fuoco scintillante un istante dopo.
L'orco che cadde tra le gambe stravolte di sua mamma... era il fratellino.

Angelo Di Sarno