Solo come
in pochi hanno la fortuna e la condanna di essere, camminavo una sera senza meta, seguendo
solo lo sterile corso dei miei pensieri e le nubi che nere si addensavano all'orizzonte
insanguinando le ultime tenui luci del tramonto.
Pensieri cupi, polverosi e lividi mi solcavano: il tempo che passa, i ricordi annebbiati,
i volti, la luce, i sogni. Tutti si agitavano nella mia mente, un ovattato brusio di
sottofondo mischiandosi al vortice, e io ne ero sopraffatto, schiacciato, quasi dolcemente
vinto. Sgomento dinnanzi il nero vortice del possibile, la vertigine del reale, le
infinite deviazioni del destino che a ogni momento si aprono e inghiottono gli uomini.
Pensavo quanto fosse bizzarro il destino di chi, quando nasce, ha già cominciato il lento
cammino che lo porterà, un giorno, alla tomba.
La chiamano vita, è agonia.
Così perso camminavo, tremando un po' per il freddo e l'inquietudine; e le gambe andavano
avanti da sole, i piedi trovavano la via senza che il cervello ci dovesse mettere del
proprio, e forse era meglio così.
Ad un tratto, senza che me ne fossi accorto, avvertii una nuova presenza dietro di me; non
la vidi né la sentii, solo mi resi conto che c'era qualcuno, che non ero più solo. Era
arrivato prima lui.
Mi girai di scatto.
"Ciao", mi disse.
Io non risposi. Lo colpii forte con la falce, dritto sul cuore, e mi avvicinai a lui. Gli
presi la mano e gli feci strada verso la mia grande casa, verso il nero eterno da dove
nessuno è mai tornato indietro.