Napoli 1835 - Amore e sogno

Sono cosciente che la mia vita è al suo termine. Scrivo questa confessione nelle piene facoltà mentali. Voglia Iddio accogliere la mia anima e preservarla dalle eterne fiamme. Ebbi una storia talmente straordinaria che io stessa, più sto a riflettere e più gli avvenimenti che vissi in prima persona mi sembrano pura fantasia. L’amore che ancora mi porto dentro verso il dott. Fusco, l’unico che veramente amai, dissipa ogni dubbio. Amore e sogno si collegano in un legame sottile e inestricabile in grado di liberare potenze incommensurabili.

 

I fatti si verificarono a Napoli nell’ottobre del 1835. Ero vedova da due anni e senza prole. Mi capitò d’innamorarmi di un medico, il dott. Fusco. Avevo ventidue anni e lui quasi trenta. Le male lingue presero a spargere veleno. Ci fu una denuncia contro il dott. Fusco da parte di un medico concorrente sobillato da alcuni miei parenti.
Due gendarmi in borghese prelevarono il dottore Fusco che ritornava a casa dall’ospedale e lo fecero salire in carrozza per portarlo al carcere della Vicaria. Era il pomeriggio del 15 ottobre e non sapevo ancora dell’arresto. Mi sentii male e caddi priva di forze sul letto. Alla serva dissi che non era niente e di starmi accanto. Sembrò un malore passeggero. Dopo un po’ caddi in uno stato di completa apatia che alcuni definiscono catalessi o isteria nervosa. Fu allora che ebbi una visione. Vidi la carrozza con il dottore entrare nel carcere. Vidi un giovane straccione con una lanterna passare intorno al carcere raccogliendo stracci, ossicini e mozziconi di sigari che riponeva in una cesta sotto il braccio. Come lo straccione vide la carrozza, si mise a canticchiare forte:

 

Munnuzziello senza malizia, sola sporcizia saccio levà!

 

Era per segnale a uno dei detenuti detto Tizzone: stava arrivando il dottore Fusco. Questo vedevo come stessi nei paraggi invisibile. Capivo che il mio amante era in grave pericolo, ma ero inchiodata a letto con gli occhi sbarrati. La mia serva s’era messa a dire il rosario. Vidi il mio amante cacciato in un'oscura cella. Era stupefatto con grande contrasto rispetto agli altri detenuti. Pensate ad un angelo caduto giù nell’inferno… Lo vedevo come se gli stessi accanto. Era vestito assai con decenza e pulito era il viso e, curato nell’aspetto.
A quei tempi nel carcere della Vicaria c’erano delinquenti alla rinfusa molti dei quali senza sentenza da parte della Corte Criminale. Mancando una riforma del sistema penitenziario, i giudicabili come il dottore Fusco, erano messi insieme ai giudicati. Egli come tanti, doveva ricevere in carcere la pena prima che la giustizia non si fosse pronunciata sul suo caso e quando non era stata ancora comprovata la colpa.

Osservai la scena. Qualcuno stava sotto il buio muro su dei sacconi e sdrucite coperte. C’era un gruppetto che a lume di candela giocava a carte fatte tagliando un grosso cartone. Sentivo un’aria stagnante e menomale che non faceva caldo. Alcuni avevano addosso stracci come camicie tutte bucherellate dai pidocchi abitatori costanti dei loro capelli untuosi, crespi, sudici, impastati e lunghi fino al collo. Nel camerone c’erano una ventina di carcerati di tipologia varia: omicidi, falsari, ladri, stupratori, accoltellatori… con tanfo nauseante. Presso le squallide pareti erano distesi a brevi intervalli, tavoloni con sopra sacchi per dormirci. Su altri tavoloni c’era del pagliericcio impolverato, albergo e colonia d’insetti tra cui i più numerosi erano gli scarafoni. C’era un incessante lavoro di ovulazione d’insetti che avevano lì il loro habitat.
Volevo gridare e salvare il mio povero amante, ma incollata ero al letto. Ero immobile però vedevo tutto chiaramente. Sapevo del pericolo mortale che stava correndo.
Uno dei detenuti, il più torvo e sudicio era detto Il Tizzone. Aveva la faccia nera per sporcizia addensata in alcuni punti come fuliggine. Si sapeva che se l’era cavata bene da scontri durissimi; che aveva accoppato un paio di sbirri e che aveva compiuto assassini a pagamento. Appena vide il mio amante gli si fece davanti e disse: “Io sono qui il Masto. Tu stanotte dormi là e non fiatare.”
Il mio povero amante si acquattò nel posto indicatogli. Tizzone snodò le lunghe dita e disse tra i denti senza che si sentisse: “Prima dell’alba ti ammazzo nel sonno.”
Detto ciò si mise a ridere. Era un riso terribile. Se rideva così, qualcuno sarebbe stato strangolato.
Io non so per quali portenti ero lì presente. Udivo e vedevo tutto come anima dell’altro mondo. Ero terrorizzata per la sorte del mio dottore. Pensai che se lui moriva anch’io l’avrei seguito.
A notte inoltrata cominciando a venire freddo, tutti si misero a dormire sui sacconi. Io stavo lì impassibile anche se il corpo era paralizzato sul letto di casa. Vedevo il mio amante accucciato e con lo sguardo fisso nel buio. Aveva occhi arrossati che non riusciva a chiudere.
Qualche ora prima dell’alba ero ancora lì, presenza invisibile e attenta. Una terribile forza s’impadronì di me e mi costrinse a fare una cosa che non avrei immaginato. Forse non ero io, forse era il demonio entrato in me o forse la volontà di dei primigeni.
Spensi il lume che gettava ombre sinistre su quel dormitorio ed andai ad afferrare il collo del Tizzone che dormiva e che aveva intenzione di uccidere il mio amante. Con due mani gli cingevo il collo e con le ginocchia pressavo sul suo ventre. Le mie mani erano tenaglie di ferro intorno al suo collo. Il russare del Tizzone cessò e le gambe si agitarono convulsamente. Le sue mani rimaste libere, avevano raccolto tutta la forza vitale per strappare i miei lacci d’acciaio che lo soffocavano. La sua vita si ribellava alla lenta agonia. Dopo un po’ inerti e gelate, le sue dita rimasero avviticchiate ai miei avambracci e le gambe si distesero prive di forza.
Nello stesso istante che il Tizzone moriva, io ritornavo normale e mi alzavo dal letto come dopo un lungo torpore. La mia serva esclamò: “Miracolo. San Gennaro ha fatto il miracolo. Siete salva!”
Il mattino seguente mi riferirono dell’incarcerazione del dottore Fusco e scrissi subito una lettera al commissario che la serva portò. Ordinavo l’immediata scarcerazione del Fusco.

 

Dopo qualche giorno ci rivedemmo. Mi ringraziò d’averlo salvato. Mi riferì che la notte prima di essere liberato era stato strangolato uno nella sua cella. Chiesi di raccontare l’accaduto. Egli riferì: “Stavo contro il muro e non mi capacitavo perché fossi lì. Ero innocente. Alcuni già russavano con strepito, altri avevano rantoli per bronchite, o asma o per l’aria chiusa; altri erano in un sonno profondo sia a causa dell’inazione in cui erano da tempo, sia per scarsezza di cibo e per la qualità dell’acqua. C’era chi non prendeva subito sonno e se ne stava per un po’ zitto e pensoso. Sulle mura nere macchie luccicanti. Erano agglomerazioni di scarafaggi che sguazzavano nella putredine.
Verso l’alba vidi un’ombra strisciare sul muro come un serpente ed il lume della cella spegnersi. Avvertii una strana presenza forse generata dalle mie stesse fobie. Vidi nel buio come un mantello o lo sentii svolazzarmi di lato. Vidi un’ombra avvicinarsi dove Tizzone dormiva e pressarlo da sopra. Non capii cosa in realtà avveniva… Avevo la mente stravolta e ritornai a pensare al mio destino. L’unica speranza eri tu, mia cara. Ogni tanto però dubitavo anche di te e cadevo in una profonda tristezza. Dicevo: amore de contessa e vinaccia de fiasco la sera è buona e la mattina è guasta.
La scoperta dell’assassinio del Tizzone avvenne verso le sei del mattino. Fu il guardiano entrato per la prima visita del camerone a vederlo. I primi albori del giorno avevano gettato livida luce sul cadavere. La faccia naturalmente nera di Tizzone era adesso gonfia, azzurrognola, gli occhi iniettati ed umidi e, sulle labbra, negli orecchi e narici, grumi di sangue. Allo schiamazzo del guardiano accorsero gli altri carcerieri, sbirri, cancellieri e scrivani. Che notte! Il caso non era nuovo, anzi non trascorrevano mesi che si trovasse il mattino qualche carcerato steso morto in cuccia senza apparenti segni di violenza. Interrogati i camerati ognuno diceva di non sapere niente. Sulle facce di tutti c’era piena indifferenza…”

 

Il racconto del mio amante mi raggelò. Ero stata io in uno strano sogno a salvarlo dal Tizzone compiendo a mia volta un delitto. Ero stata io muovendomi in una realtà parallela. Ciò che avevo visto nel mio stato d’isteria e catalessi coincideva con il racconto del dottore Fusco.
Come poteva essere accaduto? Ora so. Amore, forza primordiale che tutto vince, mi aveva dato la possibilità di salvare il mio amante. Amore aveva attraversato il limite del sogno e del reale.

Giuseppe Costantino Budetta