In quell'estate secca e calda ero quasi al verde e passavo il tempo girovagando per le strade polverose semplicemente per allontanarmi da quella gabbia insopportabile che era stata pubblicizzata come un'ariosa stanza arredata.
Lasciare il mio loculo per uscire in strada era come passare da una fornace in un forno, ma almeno c'era un minimo di differenza, quindi io preferivo girovagare senza posa, debole a causa della calura e tuttavia troppo irrequieto per sedermi; fino ad allora avevo creduto di conoscere bene New Haven, ma quell'estate mi trovai a percorrere sudando strade di cui non avevo mai sentito parlare prima.
Fu così che scoprii la fatiscente casa in Hazel Street, leggermente distanziata dalle popolose e malconce abitazioni vicine, sprangata e silenziosa, distorta e segreta; la sua vernice grigia si era crepata e staccata, dando all'edificio un aspetto trasandato e chiazzato.
La prima volta che la vidi, ebbi l’impressione che quella casa fosse in qualche modo al di fuori del tempo, che fosse soltanto lo spettro di qualche altra cosa, il guscio visibile e tuttavia ingannevole di un'altra costruzione, ma in quel momento ero surriscaldato al punto di essere prossimo al collasso, e lo stato quasi di delirio può produrre strani effetti.
Quella sera, mentre giacevo sul mio scomodo letto nella soffocante stanza "ariosa" affittatami dalla signora Fern, l'immagine della casa continuò a tornarmi in mente e io mi dissi che era soltanto una casa di legno, disabitata, trascurata dal suo proprietario, lasciata a marcire in una sporca strada dei quartieri poveri del porto, dove un tempo... forse ottant'anni prima... era possibile che fosse cresciuta una fiorente macchia di noccioli.
Quei ragionamenti però non servirono a nulla e il giorno successivo tornai in Hazel Street per fissare con occhi socchiusi quell'infernale trappola per topi. Intorno a me il selciato tremolava per il calore e per una volta perfino i monelli urlanti e i cani ringhianti erano silenziosi. Indifferente al sudore che mi scorreva sotto gli abiti sporchi, rimasi a lungo a esaminare con attenzione la casa... e d'un tratto la porta si aprì.
Non la vidi muovere, ma all'improvviso mi accorsi che era aperta e che nell'ombra della soglia c'era qualcuno che mi invitava ad avvicinarmi.
Non avevo nessun desiderio di entrare... e tuttavia lo feci. Percorso il sentierino di mattoni bordati di muschio che attraversava un giardino cosparso di roseti ormai morti, salii una breve rampa di scricchiolanti gradini di legno: appena all'interno della soglia c'era un vecchietto che dava l'impressione di essere strisciato fuori da sotto le grondaie dopo essere rimasto in ibernazione per mezzo secolo.
L'ometto era così curvo e vecchio da indurmi a chiedermi come facesse a restare integro, e il suo logoro vestito marrone sembrava un velo di ruggine che gli fosse stata riversata addosso e gli avesse aderito alla persona.
Nonostante questo entrai lo stesso e ben presto mi trovai seduto in un ombroso salotto pieno di ragnatele e arredato con grosse poltrone vittoriane dotate di coprischienale, con enormi ritratti e con un assortimento di anticaglie che annegavano nella polvere.
- Ti ho visto osservare la casa e ho capito che eri incuriosito - commentò con un inchino il mio strano ospite, che si teneva nell'ombra, - È per questo che ti ho invitato a entrare. Ti andrebbe di bere un po' di sarsaparilla?
In quel momento avrei bevuto anche acqua di fosso bollita, quindi annuii in segno di assenso, e mentre giocherellavo con il bicchiere di vetro smerigliato ormai vuoto (avevo trangugiato la sarsaparilla in un sorso) il mio ospite si presentò.
- Io sono Jonathan Sellerby - disse - e vivo in questa casa da novantasette anni. Io sono nato qui.
Lo guardai con sorpresa perché capitava di rado incontrare una persona di novantasette anni che non fosse relegata a letto o su una sedia a rotelle.
- Novantasette anni - ripeté lui, incontrando il mio sguardo con quello dei suoi occhi incolori. - Ma cos'è il tempo? Anni accumulati come altrettanti mattoni? Piccole fette di vita ammucchiate le une sulle altre? Quanto siamo sciocchi! Il tempo è una dimensione, il tempo è eterno.
L'intensa serietà del suo discorso mi sorprese, ma poi riflettei che probabilmente quell'uomo viveva solo da anni e che continuando a rimuginare fra sé aveva finito per elaborare strane idee. Se non altro, appariva innocuo.
- Altra sarsaparilla? - chiese.
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Gli consegnai il bicchiere e mentre lui usciva con passo barcollante esaminai la stanza; la penombra era però così fitta a causa delle imposte chiuse che riuscii a distinguere pochi dettagli, a parte il fatto che l'arredo era tutto vittoriano... massicce e adorne poltrone e divani, tende frangiate, un vecchio organo a pompa, il tutto rivestito da uno spesso strato di polvere grigia.
Poi il mio ospite tornò e mi consegnò il bicchiere di sarsaparilla con un elegante inchino.
- Non è più quella di un tempo... di quando ero giovane. Allora la sarsaparilla aveva un sapore speciale, e andarne a bere un bicchiere era il grande evento della settimana. Il sabato notte andavamo al Turner's Emporium e ordinavamo della sarsaparilla, e ti garantisco che a quell'epoca era una bevanda davvero speciale! Mentre parlava nei suoi occhi affiorò una strana espressione e lui parve addirittura tremare per l'eccitazione mentre proseguiva: - Forse... forse stanotte potremmo andare da Turner's, soltanto noi due. È proprio dall'altra parte della strada, sull'angolo. Aspetteremo che abbiano acceso le lampade a gas e che la maggior parte dei carri delle birrerie siano passati, poi andremo a berci un vero bicchiere... - Interrompendosi mi fissò e chiese: - Cosa c'è? Ti senti male?
Non so di cosa si fosse trattato... se dei suoi discorsi assurdi, del calore, dell'aria stantia della stanza... ma quando cercai di alzarmi all'improvviso mi sentii stordito e debole come un neonato e ricaddi all'indietro sulla poltrona, scuotendo il capo.
- Soltanto un po' di vertigini - mormorai. - Fra un momento starò bene.
La sensazione però non passò, e per quando non mi sentissi veramente male continuai a essere debole e tormentato dalle vertigini, al punto che il pensiero di tornare al calore rovente della strada mi sgomentava.
Il mio ospite, Jonathan Sellerby, parve avvertire la mia apprensione e sul suo rugoso volto da gnomo apparve un'espressione di genuina sollecitudine.
- Se vuoi restare sei il benvenuto - affermò, annuendo. - Stanotte farà più fresco, vedrai. Adesso, se mi vuoi scusare...
Mentre lasciava la stanza io chiusi gli occhi e mi appoggiai all'indietro sullo schienale della poltrona, garantendo a me stesso che, per quanto quella fosse una situazione strana, restare lì e recuperare le forze prima di avventurarmi di nuovo in strada era la sola cosa sensata da fare.
Mentre mi assopivo mi chiesi come mai fossi entrato in quella casa, cosa mi avesse indotto a farlo. Adesso che ci pensavo era successo tutto in modo assurdo: il vecchio signor Sellerby aveva semplicemente aperto la porta, mi aveva rivolto un cenno d'invito e io ero entrato.
Assolutamente ridicolo! Dopo tutto, cercai di ragionare, quella casa mi aveva affascinato, in essa c'era qualcosa che aveva attirato la mia attenzione, quindi era soltanto naturale che fossi entrato a far visita al signor Sellerby, per aiutarlo a tornare dove doveva andare, dove lui e io saremmo andati insieme questa notte. Ma dove saremmo andati? Ma certo, lo sapevo… dovevamo andare... andare... sì, quasi lo rammentavo… ma certo! Dovevamo andare al Turner's Emporium per bere la sarsaparilla, quel genere di sarsaparilla che oggi non facevano più e che aveva ancora il sapore di un tempo!
D'un tratto mi sollevai a sedere di scatto. Dov'era il signor Sellerby?
Il vecchio entrò nella stanza con passo silenzioso, lo sguardo fisso nel mio, un dito sulle labbra, e io sentii con chiarezza ogni sillaba da lui pronunciata anche se sembrava che la sua bocca formasse le parole senza emettere suono.
- È un po' troppo presto - disse con un sorriso incoraggiante. - Il tempo sta tornando indietro, ma è lento, è così lento! Adesso andrò nella rimessa delle carrozze, sul retro, perché là la presenza del passato è molto forte, amico mio, si può sentire l'odore dei cavalli, dei finimenti, del fieno... perfino della polvere. Tornerò presto, ma intanto tu devi essere paziente: il passato è là, che aspetta di essere rievocato, di vivere ancora. Ci vuole soltanto una sufficiente dose di forza di volontà e di determinazione... una dose sufficiente di desiderio. Abbi pazienza! Pazienza!
La paura mi scivolò lungo la schiena mentre lui lasciava in fretta la stanza. Senza dubbio quel vecchio era pazzo e avrei fatto meglio ad andare via di lì... ma quando cercai di muovermi mi sentii impotente e mi parve che anche le ultime riserve di energia mi avessero abbandonato.
Poi cominciai a pensare di nuovo al Turner's Emporium e scoprii che aspettare non mi dispiaceva: andare a bere la sarsaparilla sarebbe stato divertente, ci saremmo seduti sulle piccole sedie di metallo davanti al tavolino di marmo e avremmo assaporato la sarsaparilla più deliziosa che fosse mai stata fatta. Ci saremmo goduti quel sabato sera, con Gen Jackson e i suoi ragazzi che cantavano nei loro angolo e il fruscio delle gonne inamidate che giungeva dal marciapiede di mattoni. Forse da qualche parte ci sarebbero perfino stati dei fuochi d'artificio...
Mi addormentai, o almeno credo, dato che non ricordo più nulla fino al momento in cui il signor Sellerby entrò nella stanza e mi scosse per una spalla. Svegliandomi di soprassalto, per un momento non ricordai neppure dove fossi... poi mi guardai intorno con estremo stupore. Adesso la polvere era scomparsa, un lume a gas tremolava su una parete e sotto la sua luce morbida tutto appariva lucido e nuovo; le poltrone sembravano essere state rifatte di recente, i ritratti dorati scintillavano, il tappeto che prima era soltanto una specie di chiazza grigia rivelava ora un vivace disegno floreale rosa e azzurro. Sfregandomi gli occhi mi guardai di nuovo intorno, ma la trasformazione persistette.
- Ha... ha pulito la stanza? - domandai, fissando il signor Sellerby.
- Va’ alla finestra e guarda fuori - replicò lui, scuotendo il capo con un sorriso gentile.
Mentre mi alzavo notai che il suo decrepito abito marrone era stato sostituito da uno nuovo, lindo e stirato alla perfezione; adesso lui sfoggiava una bombetta marrone e faceva roteare con disinvoltura un bastone da passeggio con il pomo dorato.
Continuando a sentirmi debole mi avvicinai alla finestra che adesso aveva le imposte aperte, e tirando da un lato le tende di broccato frangiato guardai fuori.
E sussultai. Tutta la strada appariva cambiata. Adesso le lampade a gas ardevano su pali di ferro, l'ampia carreggiata di cemento era una stretta striscia di acciottolato, i marciapiedi di asfalto erano coperti di mattoni rossi. Mentre guardavo fuori con stupore un grosso carro carico di botti di birra passò fragorosamente sull’acciottolato.
- Guarda là - suggerì il signor Sellerby, affiancandomisi e indicando verso l'angolo.
Sull'angolo, in diagonale dalla parte opposta della strada, c'era un negozio vivacemente illuminato, sulla cui vetrina spiccava un nome in lettere elaborate: "Turner’s Emporium… Gelato al limone... Sarsaparilla... Soda di Ogni Sapore."
- Vieni, andiamoci insieme - mi incitò il signor Sellerby, prendendomi per un braccio.
Io mi sentii impotente, come se non avessi avuto la minima forza di volontà: volgendo le spalle alla finestra lo seguii verso la porta e insieme uscimmo nell'aria tiepida dell'inizio dell'estate. Mentre percorrevamo il vialetto di mattoni avvertii un intenso profumo di rose e vidi che adesso il giardino era una massa di roseti in fiore.
Nel frattempo il signor Sellerby cominciò a canticchiare una melodia che ricordavo di aver trovato una volta su un vecchio e malconcio libro di canzoni e di cui non ricordavo il titolo ma soltanto un verso, che diceva: "Sotto la luce della luna, mia cara, tu e io pronunceremo un voto".
Da qualche parte in lontananza potevo sentire un insieme di voci che cantavano... voci un po' stonate e perfino aspre, ma che per qualche motivo suonavano stranamente nostalgiche e evocative, al punto che mi arrestai per ascoltarle.
- Sono Gem Jackson e alcuni dei ragazzi della fabbrica di birra - sorrise il signor Sellerby. - Adesso sono un po' arrugginiti... fuori esercizio... ma aspetta che sia estate più avanzata e scoprirai di essere pronto a restare ad ascoltarli per tutta la notte!
Quando arrivammo al marciapiede di mattoni mi sentii assalire da un'ondata di vertigini e da qualche parte nel profondo del mio subconscio, nel midollo stesso delle ossa, lampeggiò un avvertimento: in qualche modo sapevo che se avessi attraversato quella strada coperta di acciottolato e fossi entrato nel Turner's Emporium non sarei più potuto tornare indietro, e nel rendermene conto mi sentii assalire da un terrore incontenibile, da un panico che esulava da ogni controllo. Liberandomi dalla mano del signor Sellerby ripercorsi correndo il vialetto e risalii i gradini fino ad arrivare alla porta; mentre l'aprivo mi girai a guardarmi alle spalle.
Il signor Sellerby si era voltato e mi stava fissando con stupore, ma dopo un momento scrollò le spalle e scosse il capo. D'un tratto un'incontenibile felicità, un senso di beata anticipazione trasformarono i suoi lineamenti e lui si avviò attraverso la strada e verso il Turner's Emporium facendo dondolare il bastone da passeggio.
Sbattendomi la porta alle spalle mi precipitai in casa e crollai su una poltrona con gli occhi chiusi; il mio cervello, o qualche altra parte vitale del mio essere, sembrava nuotare in un mare fatto di spazio vibrante e nessun termine, neppure "vertigini" può spiegare ciò che provai in quel momento: mi sentivo privo di corpo, sperduto in una dimensione senza nome su cui non avevo nessun controllo e in lontananza, a una distanza infinita, potevo ancora sentire un flebile suono di voci che cantavano, stonate e tuttavia affascinanti. Infine anche quel suono svanì e l'oblio si riversò su di me.
Era primo mattino quando mi svegliai nella stessa stanza polverosa e dalle finestre sprangate in cui ero entrato il pomeriggio precedente. Jonathan Sellerby non si vedeva da nessuna parte, ma sul tavolino accanto alla poltrona c'era un bicchiere di vetro smerigliato la cui base umida aveva lasciato un tondo sul legno. Alzandomi in piedi con aria stordita mi diressi alla porta e lanciai un richiamo, senza però ricevere risposta.
Nel percorrere il vialetto di mattoni vidi che il cortile era di nuovo un groviglio di neri roseti morti; grazie al fatto che la calura era leggermente diminuita, riuscii infine ad arrivare alla mia stanza senza incidenti. Naturalmente la cosa non finì lì. Qualche giorno più tardi ricevetti una visita della polizia: a quanto pareva Jonathan Sellerby era scomparso e io ero stato visto uscire dalla sua casa, quindi la polizia pretendeva di sapere cosa ne avessi fatto del suo corpo.
Io risposi in tutta sincerità che lui era uscito la sera precedente il momento in cui io avevo lasciato la casa e che non era più tornato, e ore di interrogatorio non riuscirono a cavarmi altro. La polizia mi arrestò, mi scarcerò, mi arrestò nuovamente e infine mi lasciò libero di nuovo con la cupa promessa che il caso non si sarebbe chiuso così.
La mia teoria era che Jonathan Sellerby fosse rimasto seduto in solitudine in quella casa chiusa e ombrosa per oltre mezzo secolo, desiderando con spaventosa intensità il passato, i giorni felici della sua giovinezza, e credo che giunto al culmine del suo desiderio nostalgico si sia servito del mio cervello... intenzionalmente… forse per caso... come di una sorta di batteria o caricatore per rinforzare le onde incessanti del suo desiderio. E... forse sempre per caso... il suo piano aveva funzionato. I suoi onnipresenti ricordi del passato, le sue intense visualizzazioni, la sua precisa ricostruzione di immagini, suoni e odori avevano infine fatto resuscitare un periodo che era ormai passato ma continuava a esistere da qualche parte nella fluente dimensione del tempo.
Ma come potevo dire alla polizia che avrebbe trovato Sellerby a sorseggiare sarsaparilla nel Turner's Emporium, nell'anno 1890?
Traduzione di Sergio Bissoli
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