Squarci

Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2003 - edizione 2

Gli effetti erano stati ben più devastanti del previsto; gli studi e gli esperimenti che avevano visto il sacrificio di tanti atolli prima incontaminati potevano prevedere tutto, ma non quello che io avrei visto. Per giorni i cieli avevano fatto da culla alle migliaia di testate nucleari partite da ogni angolo del mondo; ogni cosa era ormai impregnata di radiazioni.
Levando gli occhi in alto vidi il missile che piombava sulla mia esistenza. L’aria, ormai già satura, si appesantì ulteriormente; sembrava incapace di contenere il livello di radioattività che si andava concentrando intorno al missile. Vibrazioni. Calcinacci che cadevano su di me, ancor prima dell’esplosione. Il cielo era plumbeo, presagio di una tragedia senza precedenti. Uno squarcio si aprì sopra di me, rapido come una crepa nel vetro e un frammento informe si staccò, non da un muro ma da dal tessuto stesso della realtà, cadendo pesantemente su di me, coprendomi e proteggendo parte del mio corpo dallo scoppio nucleare.
L’esplosione, infine.

Ero sopravvissuto, forse da solo; quel che di me era rimasto scoperto si era disintegrato in un solo istante, ma il resto giaceva come in un limbo, immerso tra reale e irreale. Dallo squarcio nella realtà fuoriusciva un liquido denso come melassa, che si spandeva sulla superficie della Terra e penetrandola scivolava dalla parte opposta, ignorando tutte le leggi fisiche note. Gocce colavano in cielo, agglutinando le nubi e l’atmosfera; le vedevo scivolare nello lo spazio, arrivando fin sopra le stelle. Attraverso la crepa, che si allargava di secondo in secondo, non scorgevo nuove dimensioni, nuovi mondi, nuove realtà. Vedevo, invece, l’irreale presenza del nulla. Mi ci sarei tuffato, ma ero bloccato dalla lastra, che divideva il mio corpo.
Capii che stavo vivendo, da solo, la fine dell’Universo, in una lenta agonia che sarebbe durata più del tempo.

Luigi Civita