Ero
arrivato al bar mentre si accendevano le luci gialle dei lampioni. Com'era dolce il rosso
del bottiglione dopo una giornata a spingere cariole sulla ghiaia. Stavo seduto al
tavolino a guardare la telecronaca della partita. Che bravo Di Stefano a fare quegli
scherzi col pallone. Ma boia cane e' andata via la luce. Fuori c'e' fracasso, vien giu'
dalla valle un temporale da svegliare i morti. La gente esce in strada, le donne
cominciano ad urlare. Io resto al buio, accendo una sigaretta e guardo i bagliori dei
lampi contro lo schermo spento della televisione. Chissa' se Di Stefano quel pallone l'ha
messo in fondo alla rete.
Strano questo vento, sembra l'urlo di un milione di lupi. Poi arriva un attimo di silenzio
(che porta il nome della mia morte) ed esplodono tutti i vetri del bar. Sono di quei lupi
le mascelle serrate che mi strappano la pelle. Se questo si chiama temporale, il fango e'
la sua pioggia.
Volano frammenti di roccia e mi spolpano la carne a brandelli. Sento la
fanghiglia che scivola dentro la gola, fino a riempirmi le viscere. Cosi' arriva il buio
della notte, lo vedo nella melma che comincia ad uscire dalle cavita' dei miei occhi.
Ritorna il giorno. Seduto davanti alla televisione spenta di quel bar tabacchi, sepolto
sotto dieci metri di porcherie. Ecco il mio scheletro con il mozzicone ancora acceso fra
le dita. Una fiammella che non si spegne. Della poltiglia delle mie budella, restano
striature color porpora, nei rivoli di caffelatte che neache riescono a macchiare gli
stivali di gomma di quel gruppo di uomini dalle faccie scure. Camminano dieci metri sopra
il mio teschio. Li sento conversare. Si riempiono la bocca con i nomi dei cadaveri
allineati sulla sponda del Vajont. Sciacalli.