Voleva
sapere fino a che punto poteva spingersi. Voleva conoscere il limite. E poi osare fino a
raggiungere l'ignoto. La realtà non era abbastanza per Martina. Geniale e maledetto quel
suo talento onnivoro, insaziabile, mai capace di bastare a se stesso. E perversa, vitale,
inestinguibile la folle spinta alla ricerca dell'ispirazione pura. Attinse ad essa,
direttamente, quella notte, dopo averla evocata nel buio denso della sua camera. L'attese,
con estrema pazienza, le fece spazio, le diede luce, le donò la vita stessa. Dopo aver
acceso più di mille ceri, versò sangue, il suo, sopra la pagina, dannatamente bianca da
settimane ormai, e scrisse un nome. Lo invocò. Per ore. Tanto bastò e non fu più sola
nella stanza. Qualcuno aveva risposto alla sua chiamata. Una presenza muta che ora la
soggiogava e la possedeva con l'ineffabile ferocia della sua essenza malvagia.
L'aria immobile sapeva di zolfo. Un alito rovente ammorbava la stanza ad ogni respiro.
Ad un tratto davanti a Martina si spalancò un varco. Dono supremo che solo a pochi artisti era stato concesso di contemplare. Fonte inesauribile di idee e conoscenza, esaltazione della psiche e dei sensi. Era la risposta alla sua domanda. Martina in pochi istanti vide ciò che aveva desiderato per un'intera esistenza. E ne ebbe orrore. Cercò di ritrarsi, ma non potè farlo. "Voglio tornare indietro" gridò, un'unica volta. Ma nessuno, mai, era tornato indietro dopo aver guardato al di là del varco. Martina lo scoprì solo allora mentre scivolava inesorabilmente verso di esso. Quando le forze la abbandonarono si lasciò andare. Oltrepassò il limite che così a lungo aveva inseguito e subito il varco si richiuse alle sue spalle. Nella stanza oscura restò il suo corpo, riverso sulla scrivania. Di fianco la penna calda, fremente. Stretto nel pugno uno scritto: il suo capolavoro. Postumo.