Erano
giorni che non dormivo: appena chiudevo gli occhi una strana musica sinsinuava nel
mio cervello. Era sempre lo stesso motivetto, era come le canzoni della pubblicità che ti
entrano in testa e non vogliono uscire fuori da lì. Ma non era una canzone ascoltata alla
radio o in televisione: sembrava una ninna nanna o qualcosa del genere.
Non ricordavo daverla mai sentita prima, ma di questo non potevo esserne sicuro:
innanzitutto alla mia età (intorno agli ottantacinque anni) la memoria in alcuni casi
vacilla, e inoltre non conoscevo parte del mio passato.
Sbarcai in America nel 1952, con poche lire in tasca ed un gran vuoto nella mente; il
capitano della nave raccontò che già durante il viaggio sembravo in stato confusionario,
ma il medico di bordo pensava fosse dovuto al forte mal di mare di cui soffrivo. Avevo
viaggiato in terza classe, il biglietto era regolarmente pagato e mi ero imbarcato da
Genova; il mio accento era tipico di qualche regione del sud Italia (di quale poi, nessuno
nera certo): e questo era tutto quello che si sapeva di me.
Mi costruii una nuova vita, lavorai sodo ed arrivai a sposare una brava ragazza e a
diventare un modesto imprenditore. Ma in tutto questo tempo nemmeno un ricordo del mio
passato. E strano che solo in prossimità del riposo eterno diventiamo talmente
svegli da riuscire a vedere ciò che esiste oltre la linea che separa la vita dalla morte.
Ed ora lo vedo davanti a me, mentre canta quella stupida nenia: un ragazzino che porta
limpronta delle mie mani fissate sulla sua gola. Che sia questa la pena che devo
scontare, rivedere eternamente la mia colpa?
Posso anche sopportare la canzone, ma non quel sorriso sulle sue labbra; perché ciò che
è peggio, è che mi ha perdonato.