Me la
rivedo davanti.
Come fosse ieri, capite?
Lei, apparsa come per incanto fra gli alberi.
La sua voce.
Così strana, rauca e dolcissima.
Un balsamo per le mie lacrime brucianti d'odio.
Finchè.
Finchè quella volta.
Ancora oggi mi chiedo cosa immaginassi, cosa sperassi mentre, nella mia fuga dalle sassate
degli altri ragazzi, imboccavo il sentiero per il bosco.
Non avrei dovuto gridare, lo so.
Non avrei dovuto piangere così forte.
Lo percepii, immediatamente. Come se tutto si fosse raggelato nel silenzio, per poi
scaricarsi in un'esplosione pazzesca di rumore e violenza.
Un urlo.
Un suono terrificante, quale mai avevo udito in vita mia, e che tuttavia mi sembrò
stranamente familiare, quasi rassicurante.
E l'effetto che ebbe sui miei aguzzini, il modo in cui li vidi gemere, contorcersi,
sbavare per terra, il sangue che gocciolava loro dalle orecchie e dagli occhi.
Mi sfuggì un grido quando gli artigli della creatura che produceva quel suono affondarono
nella carne tenera, lacerando, dilaniando e torcendo.
Avrei dovuto saperlo, lo so, eppure stentai a riconoscerla.
Poi i nostri occhi si incontrarono, e il ghigno demoniaco che le aveva deformato i
lineamenti svanì, per lasciare il posto a un sorriso dolce.
Mi voltai e corsi via, nelle tenebre.
Non ero pronta, capite. Non ero pronta per sapere chi e perchè mi aveva abbandonato
davanti a quel pozzo, a metà strada fra la foresta e il villaggio.
Ma ora che gli anni accumulatisi sulle mie spalle mi hanno insegnato quanto può essere
sottile il confine fra bene e male, ora che la struggente nostalgia delle foreste della
mia infanzia mi assale sempre più violenta, io mi interrogo sulla mia voce un tempo
argentina e ora così roca, gutturale, e mi chiedo quanto aspetterò ancora prima di dare
finalmente voce all'urlo che cresce dentro di me...