La Grotta del Tempo

L'azzurra catena degli Alburni vinta da cupo silenzio invernale. Chiuso in cappotto e sciarpa, le mani in tasca, ero impalato nella piazzetta del paese. Dovevo terminare la ricerca Sui sentieri della Magna Graecia nel Salernitano da presentare al XI Congresso di Storia Antica. Nei miei studi descrivevo una località nota come Grotta del Tempo e che corrispondeva, secondo le mie deduzioni, con le sorgenti del Fiume Calore ai piedi della collina del mio paese. Nei pressi della misteriosa località i Greci di Poseidonia e di Velia avevano edificato un tempietto in onore della Dea Madre.
A casa misi in zaino pila, taccuino, penna e macchina fotografica. Indossai indumenti per la campagna con lunghi stivali di gomma e presi per la campagna. Presto fui tra ramaglia di brune querce. Folate di vento gelido dai monti innevati. Luce del giorno appena filtrante tra nuvole dense. Triste grigiore sulla nuda campagna. Dopo circa un'ora di marcia spedita fui nel mezzo di una radura coperta da un manto acquoso di pallida erba, circondata da pioppi, olmi e salici rossi. Tinta dorata e ramata di foglie non proprio secche, ma ingiallite sui pioppi dava tenue illusione di sole. Il resto grigio in cielo, grigio in terra, un'aria crepuscolare, fango invadente.
Per raggiungere il fiume attraversai un sentiero scavato tra radici di querce, faggi, aceri, ontani, agrifogli e tassi. Fui alla fine ai bordi del fiume. La valle deserta. Abbandonare il lavoro, abitudini, gli amici di sempre, riorganizzare le mie forze vitali e concludere la mia ricerca.
Un siepaio mi ostruì il passaggio. Dovetti entrare nella bassa corrente del fiume, camminandoci protetto dai lunghi stivali. Si avvicinava la sera e la lunga notte invernale. Nebbia tra i rami e ombre grifagne sotto nuvole enormi. Scheletriche dita il bosco solenne innalzava. Fragore frusciante del fiume la valle inondare. Avevo risalito la corrente fino alla fonte dove la valle si restringe in gola profonda e stretta. Speroni rocciosi immoto laghetto delimitano su cui la roccia s'incurva a formare una grotta alta una cinquantina di metri, una diecina larga. Acqua scura scorre alla base dello speco alimentando il laghetto che più giù prende forma di fiume. Debole luce di giorno calante penetrare appena tra abissali pareti. Messo giù lo zaino, scattai foto. Pesanti tenebre schiacciare i piccoli paesi tremuli sui dorsi dei colli. Ero solo di fronte alla mia esistenza in un mondo spento. Estrassi la pila dal tascapane ed illuminai le pareti della grotta appena una ventina di metri profonda. Di certo doveva essere quella la Grotta del Tempo presso cui c'era il tempietto sacro alla dea Ida, la Gran Madre. La luce della pila fece emergere taglienti pieghe rocciose coperte da muschio, con rigagnoli stillanti dalle viscere della montagna. Illuminai nel fondo un grottino. Camminando nella bassa acqua del laghetto, mi ci avvicinai. Illuminai il fondo di quella specie di diverticolo penetrante nella montagna. Vidi a me in faccia una scritta in greco arcaico incisa in roccia. Trepidante per la scoperta, scattai foto. Riportai sul taccuino la parole greche: Τό το̃υ Χρόνου  ̉ υπόγειον

 

Il significato era: La Grotta del Tempo. Esultante, come bambino saltellai coi piedi in acqua. La mia ricerca sarebbe stata pubblicata su importanti riviste straniere.
Il grottino era abbastanza largo all'imbocco e rialzato dal pelo d'acqua. Mi tolsi il giaccone che poteva essermi d'ingombro. Misi nelle tasche dei pantaloni la pila, il taccuino e la macchina fotografica. Entrai nel grottino allungando le gambe, pronto a sfidare i pericoli dell'imprevisto. Il condotto si restrinse e fui sul punto di tornarmene indietro. Sopra uno sperone un cunicolo più stretto il cui imbocco era rischiarato a tratti da strani riverberi come luce riflessa da acqua stagnante. Spensi la pila per rendermi conto. C'erano nell'imbocco strani riverberi. Avanzai curvo sugli arti passandomi la pila ora in una mano, ora nell'altra.
La luce luminescente sparì. Accesi la pila e mi accorsi di stare alla soglia di una grotta molto ampia. Presi ad illuminare bianchi tubicini penduli dalle stillanti volte, alcuni molto lunghi, altri tozzi, altri a formare incrostazioni simili a pan di zucchero rovesciato. Se lo stillicidio aveva luogo lungo le pareti laterali, l'incrostazione d'alabastro prendeva forma di drappi e cortine. Crostoni di stalagmiti s'innalzavano a forma di pilastri mammellonati o di candele fino a collegarsi con le sovrapposte stalattiti maggiori, formando colonne nel mezzo e lunghi, sfavillanti drappeggi scanalati alle pareti. Ripresi la stazione eretta. Come trascinato da un volere a me superiore continuai l'esplorazione. La natura aveva scolpito nei secoli sulla roccia, guglie ed arabeschi come cattedrale nel cuore della terra. Mi trovai al centro di uno spiazzo con rare stalattiti e stalagmiti. Su una delle superfici di roccia levigata mi parve di aver illuminato un dipinto. Mi avvicinai alla roccia. Un volto femminile sbiadito con leggiadro corpo e bianco seno trasparivano da un sottile drappeggio di seta. Stava diritta, imponente, fiancheggiata da due leoni acquattati. Gigantesca era l'immagine che s'allungava verso la nuda volta. Sotto i suoi piedi nudi era una scritta in greco:

 

Η Ί̀δας μήτηρ  ̉ ορείη

 

O MADRE IDA PREGHIAMO

 

La Gran Madre Ida, una divinità dei monti e dei boschi dipinta dai coloni della Magna Graecia, in ricordo della loro isola, Creta. La dea forse fu venerata come abitatrice della grotta medesima. Sulle altre pareti non c'era nulla.
La mente può imprigionare la ragione in intricati sogni dove una realtà insegue un'altra in una corsa senza fine. Dormivo o sognavo?

 

Prima di tornarmene indietro osservai di nuovo il dipinto, capolavoro dell'arte greca arcaica. I colori in alcuni punti invasi da muffe, ma in piccola parte. Risaltavano gli ocra, i carminio e le delicate sfumature della pelle. Fissai gli occhi della dea vivi e neri come notturne profondità. Una voce mi fece trasalire. Una voce di donna sottile come nebbia avvolgente le piante. Intorno a me nessuno. Udii la voce dire: "Straniero, non andare via. Vengo da te nel segno dell'amicizia. Bisogno ho di parlarti. Se vai via, più non esisterò."
Nella giostra di stalattiti, la luce della pila si franse. Gridai: "Chi sei?"
Poco distante da me, vidi un chiarore e l'immagine di una donna in penombra ondeggiante. Una luce fioca la illuminava come in un quadro di Rembrandt. Somigliante nell'aspetto al dipinto della dea Ida. Ferma e muta, mi parve una statua. Impietrito, ebbi la forza di dire: "Chi sei?"
Di fronte a me venne con impercettibili passi. I suoi occhi profondi e tristi brillarono. Un lieve rossore apparve su quel volto, prima pallido. Disse: "Sono qui per parlarti."
Sembrava che aspettasse proprio me. Le strinsi le mani che al mio tocco divennero calde. Fissai di nuovo il suo viso. Negli occhi un non so che di supplichevole, luccicante ed eccitante. Le labbra contratte in inquietanti pensieri. Il manto di seta nera lasciava trasparire le dolci nudità del corpo. Accostò il capo sopra il mio petto. Mi sembrò più vera, ma sentivo il suo cuore pieno d'angoscia. Disse allontanandosi un poco da me:
"E' difficile capire. Venuta sono dal passato. La forza cieca e misteriosa contro cui nulla resiste, in vita mi porta nei tristi periodi della Storia, quando il suo cammino s'immerge nel sangue."
La montagna parve aprirsi proiettandomi all'esterno, accanto alla riva del fiume. Notte fonda. Mi guardai attorno convinto di aver sognato. Rifeci ansante la via del ritorno. Il giorno dopo ritornai a cercare la Grotta del Tempo. Sparito il cunicolo della sera prima, ma restava sulla parete la scritta:

 

Τό το̃υ Χρόνου  ̉ υπόγειον

 

Ispezionai le pareti. Non c'era il diverticolo attraverso cui ero entrato nella grotta dove la donna mi aveva parlato forse in diversa dimensione dello Spazio - Tempo.

Giuseppe Costantino Budetta