Margherita,
ormai abituata alla fioca luce che rischiarava la stanza, riusciva a distinguere
distintamente il tetro volto dei suoi aguzzini che, seduti nei loro scranni, la
osservavano come famelici sciacalli pronti a saltarle addosso non appena avesse mostrato i
primi segni di cedimento.
Il tempo, negli ultimi tre giorni, si era consumato per lei in un'interminabile veglia, in
cui non esisteva più né giorno né notte. Con terrore capì di essere alla deriva e,
simile ad un naufrago che cerca in tutti i modi di rimanere a galla, tentò di aggrapparsi
a quel poco di lucidità che ancora le rimaneva. I suoi sforzi però furono vani, e il
buio che si era impossessato della sua mente inaspettatamente travalicò l'angusto spazio
in cui era prigioniero e si propagò all'esterno.
Lo spazio e il tempo si annullarono, e Margherita si ritrovò all'ombra di una gigantesca
quercia dai cui rami pendevano centinaia di corpi scarnificati. Nel cielo, una luna
pallida e spettrale diffondeva la sua purpurea luce in una desolata radura. All'improvviso
un'ombra emerse dall'oscurità, era una donna che solitaria incedeva tenendo tra le
braccia il corpo di un bambino orribilmente mutilato. Ogni impronta che lasciava dietro di
sé si colmava di sangue, su cui avidamente si gettavano eburnei pipistrelli.
Immediatamente la paura, come un grosso e viscido serpente, s'insinuò nel suo corpo,
salì su per la gola fino ad arrivare alla bocca e qui esplose in un urlo profondo e
straziante che dissolse quelle visioni come brandelli di un sogno.
Fu in questo scenario carico d'angoscia che una babele di parole, reiterate in una sorta
di litania ipnotica e ossessiva, infranse il silenzio: "TEMOR SATERG TEMOR
TEMOR SATERG TEMOR
TEMOR SATERG TEMOR... TEMOR SATERG TEMOR... MORTE STREGA
MORTE".