Una bianca
giornata d'inverno.
Una valle adagiata tra alte montagne.
La torre di un'antica fortezza.
Una porta.
Davanti a quella porta di legno massiccio, la mano sulla maniglia
dovevo aprirla e non riuscivo. Tutto intorno, silenzio. Il bianco silenzio dell'inverno,
delle montagne, della fortezza solitaria. Poi solo un rumore, insistente, accelerato: il
martello del mio cuore. Mi rimbombava nell'anima.
Ma c'era qualcos'altro. Un altro battito, che si confondeva con quello. Non c'erano dubbi,
proveniva da dietro la porta. Dovevo entrare: la aprii.
La luce lattea e densa mi
abbagliò: una stanza completamente bianca mi accolse - forse sarebbe meglio dire "mi
avvolse" -: tende di velluto candido scendevano dal soffitto in folte pieghe, bianchi
tappeti coprivano il pavimento, da una grande finestra entrava la luce dell'inverno.
Come sospesa in quella densità bianca, non lo vidi subito: un orologio a pendolo. La
sfera immediatamente mi ipnotizzò
oscillava lenta
come se fosse molto
pesante
tremendamente lenta. Come se il tempo - lui che sempre scivola via senza che
te ne accorgi - facesse fatica ad avanzare, trattenuto da quel bianco, assorbito dai
velluti, frenato dai tappeti
Angoscia, angoscia del tempo che non riesce a scorrere.
Il tempo che fa fatica a vivere.
Quel candore poco a poco stava prendendo il posto della realtà. Piano piano, ma inesorabilmente, la realtà - la realtà! - scompariva, e solo rimaneva il bianco, il bianco nulla.