Sogno ricorrente

Racconto per il concorso "300 Parole Per Un Incubo", 2003 - edizione 2

Un raggio di luna svegliò Anton, era nella lurida cella dei suoi carnefici. La branda sfasciata, il pavimento sporco dei suoi stessi escrementi, il fetore della paura che aleggiava intorno. Aveva pianto, aveva gridato ma nessuno aveva avuto pietà di lui, si erano accaniti, lo avevano torturato in nome di una scienza che non esisteva.
Cercò di tirarsi su, ci riusciva, non sapeva come potesse essere ma le sue gambe erano di nuovo integre e forti. Le pietre fredde gli ferivano i piedi, ma lui non sentiva nulla. Scrutò nell’oscurità quella porta che aveva sempre sognato di abbattere, non credette ai suoi occhi, era aperta.
Il carceriere aveva dimenticato di chiuderla, quando gli avevano portato la brodaglia che loro chiamavano cibo. Non aveva più paura, era libero, libero di scappare e di ritornare dove era atteso da chi l’amava.

Silenziosamente varcò l’uscio, il corridoio tetro era buio, non poteva desistere, era la sua opportunità. Sempre più veloce cominciò a correre, sempre più lontano, fino ad essere inghiottito dall’oblio che lo circondava. Non aveva paura, lo confortava un unico pensiero, era libero e prima o poi avrebbe rivisto la luce.
Un rumore sordo svegliò Anton, giaceva sulla sua branda, abbandonato nel dolore della pazzia. Si tirò su e vide ciò che restava delle sue gambe, miseri moncherini avvolti in bende insanguinate. Toccò il viso, era deforme come tutto il resto del suo corpo, a causa del siero che continuavano ad iniettargli. Guardò la porta che lo confinava, era chiusa con un pesante lucchetto. Il suono che l’aveva svegliato erano passi, il medico con l’uniforme grigia tornava per ricominciare i suoi esperimenti. Un grido muto gli morì in gola, era stato ingannato ancora una volta dal suo sogno ricorrente. Ricadde disteso e rimase ad aspettare piangendo, l’incubo stava per ricominciare.

Giuseppe Schettino