"Ciao mamma, io esco! Non aspettarmi per cena, farò tardi."
Telefonino in tasca e giubbotto di jeans chiaro tra le mani, a penzolare dalla spalla
destra, Massimo aprì la porta di legno un po' consumato dell'appartamento ed uscì in
cortile.
"Giornata calda oggi - rimuginava camminando con il suo solito passo un po'
ciondolante - avrei potuto fare a meno della giacca."
(Urlo)
Le strade erano semideserte quella domenica pomeriggio: solo pochi variegati personaggi
popolavano la città immersa nei suoni delle tv col loro incessante ciarlare interrotto in
rare occasioni dal motore di qualche auto il tempo di un effetto Doppler: tutto tornava
nella norma; campo libero alle voci degli Anchormen.
Guardandosi distrattamente attorno, apparentemente senza pensieri, Massimo raggiunse la
Stazione e prese posto su una di quelle panchine di pietra che sembrano sempre più fredde
di quanto siano in realtà. Non diede credito a questa considerazione che gli scivolò via
dalla mente in un istante, spazzata via dalla voce sgradevole dello speaker che annunciava
il suo treno.
(Un colpo solo)
In casa, seduta su una seggiola in cucina, la madre di Massimo se ne stava immobile
davanti al televisore. L'acqua per la cena a cui Massimo non avrebbe partecipato si
scaldava al fuoco lento del fornello. Sole e mosche entravano dalla finestra semiaperta.
La donna rimaneva seduta immobile. Gli occhi spalancati mostravano uno sguardo di terrore
lacerante, l'ultimo. Stretto tra le dita della mano destra un biglietto con una frase
scritta in caratteri grandi e tremolanti:
CIAO MAMMA, IO ESCO!
Gocce di colore rosso avevano scavato rivoli irregolari sulla carta. Le
stesse che, ormai coagulate e morte, uscivano dallo squarcio profondo aperto alla gola
della donna dal coltello appoggiato sul tavolo accanto al corpo.
Una mosca entrò dalla finestra e si posò esattamente sopra la ferita.
Non aspettarmi mamma.