Accadde un
sabato mattina di marzo.
Fu allora che la vecchia donna, logorata ormai da giorni da quel pensiero inquietante,
decise di chiamare il ragazzo rumeno a cui dava ospitalità in cambio di piccoli lavori di
manutenzione.
La villa era grande. Richiedeva costanti e onerose cure.
Lei era sola ormai da anni. Vedova, l'unico figlio fuggito da casa poco più che ventenne
senza un motivo, senza una parola. Come senza parole era stata la sua breve vita nella
villa. Muto dalla nascita per una malformazione congenita.
Tutte le attenzioni che la madre gli aveva riservato, i migliori specialisti, le
consulenze all'estero; nulla era servito a fargli riacquistare l'uso della parola.
Il giovane extracomunitario giunse dopo pochi minuti; un piccone nella mano destra.
Sapeva quello che doveva fare.
Il primo colpo fece saltare un pezzo d'intonaco. Un suono sordo svelò il vuoto che si
celava oltre il muro.
Poco dopo la fuga del figlio aveva deciso di murare quella porta e isolare parte della
villa, riuscendo così a ridurre le spese e a diminuire il senso di solitudine che la
circondava.
Al terzo colpo il sottile strato di mattoni cedette. In breve il giovane liberò il
passaggio.
La donna vi si infilò. La luce della torcia rischiarava i locali da anni abbandonati a
polvere e ragnatele.
Quella parte della villa era un dedalo di corridoi e stanze. Chiunque vi si sarebbe
smarrito.
Lei no. Guidata da un filo invisibile si diresse decisa verso quel locale al piano
interrato, senza finestre, in cui il figlio amava rinchiudersi per isolarsi dal mondo.
Lo trovarono lì, disteso al centro di quella stanza priva di arredo.
Le gambe spezzate dalla caduta dalla ripida scala che portava fin sotto.
Sul volto mummificato una smorfia. Un ultimo grido, disperato, che nessuno avrebbe mai
potuto sentire.