Quella
mattina finalmente avrei conosciuto i Kepplen, i miei nuovi vicini di casa.
Ero felicissimo, non rivedere più quell'arpia di Adele Toth mi riempiva di gioia. Era una
viziata pettegola zitella, che non si faceva mai gli affari suoi.
- Stia attento signor Noose, che hanno rubato molte auto nel fine settimana, e non vorrei
mai che accadesse anche alla sua. Che deve averla pagata molto cara, vero? - ripeteva ogni
week-end.
- Sì, Adele! Buona giornata anche a te! - rispondevo costantemente. "Vecchia megera!
Tanto non te lo dirò mai quanto l'ho pagata la mia Cadillac. Puoi starne certa."
Adele era l'unica che mi chiamava "signor Noose". Non l'avevo mai sentita dire
il mio nome di battesimo.
Andai in cucina e vidi con grande gioia che il sole splendeva nel cielo. Guardai
l'orologio sul mobile di fianco al frigorifero: le 10.47.
Ridacchiai divertito. Mi stiracchiai braccia e gambe e poi iniziai a fare colazione. Non
era ancora mezzogiorno, ma faceva già caldo. Era il 25 luglio, ed ero finalmente a casa,
per godermi le tanto sospirate vacanze estive.
Uscii di casa e mi diressi dai Kepplen. Suonai due volte il campanello. Attesi una decina
di secondi.
Nessun'anima viva.
Risuonai. Aspettai ancora, ma invano. In casa, constatai, non vi era nessuno.
Feci per tornare indietro sconsolato, quando una finestra socchiusa attirò la mia
attenzione. Procedetti lentamente, mi guardai intorno, per assicurarmi che nessuno mi
vedesse e sbirciai all'interno dell'abitazione. Era buio, e il tutto era accompagnato da
un odore disgustoso che proveniva dall'interno della casa.
Stavo fissando da un paio di minuti il parquet di legno che ricopriva il pavimento del
soggiorno, quando udii il rumore di una macchina che stava passando sulla strada dietro di
me. Mi abbassai appena in tempo per vedere Phil Cunnigurm che sfrecciava veloce in
direzione di casa sua, a bordo del suo magnifico Porsche nero.
Guardai di nuovo nello spiraglio che mi permetteva di scrutare quella piccola visuale
della stanza dell'edificio: per poco non caddi a terra, sobbalzando.
Riuscivo a vedere chiaramente due piedi, di una signora, le vene varicose che li
ricoprivano, poco più in là. Calzavano un paio di ciabatte a fiori rosa con della
pelliccia bianca intorno.
Le avevo già viste, ma non ricordavo dove e quando.
"Ma allora dentro c'è qualcuno!" realizzai. "Ma perché non mi apre?"
Mi diressi nuovamente dinanzi all'uscio d'ingresso. Premetti per la terza volta il
pulsante rotondo del campanello che per la terza volta suonò.
Anche in quell'occasione aspettai per qualche secondo. Ma ancora nessuno era venuto ad
aprirmi.
Alzai lo sguardo, per cercare di vedere qualcosa attraverso la finestrella di vetro opaco
in cima alla porta.
Questa volta emisi un gemito, prima di cadere a terra: i piedi, gli stessi piedi di prima,
erano rivolti all'insù, come se la donna si stesse esibendo in una verticale, e mi
guardavano, famelici.
Un piede si mosse in avanti per poi compiere una rotazione di 360°; ero disgustato. Non
avevo mai visto fare una cosa simile. "Forse perché quei piedi non sono umani?"
mi propose istintivamente la mia fervida mente.
Poi, sempre lo stesso piede prese a muoversi ritmicamente verso la mia destra, quasi come
se volesse indicarmi qualcosa.
Avevo paura a voltarmi; chissà cos'avrei visto?
Finchè trovai il coraggio e girai il mio capo: niente. Proprio niente. Tutto era come
prima, nulla era comparso alla mia vista per squartarmi o afferrarmi un braccio per poi
staccarlo a morsi.
La porta d'ingresso si aprì di colpo, facendomi urlare ed indietreggiare di qualche
centimetro col sedere a terra.
Una donna, sulla sessantina, mi guardava stupita, ridacchiando: - Sì? Desidera? -
domandò.
Istintivamente guardai la finestrella sull'uscio: i piedi erano scomparsi. I miei occhi
scesero subito su quelli della signora. Ma potei appurare subito che indossava un paio di
scarpe sgualcite blu, non quelle orribili ciabattine.
Dopo aver dato il benvenuto a Josephine Kepplen, tornai in casa, per
sdraiarmi, cercando di dimenticare quell'orrenda visione. Percorsi il piccolo soggiorno
immerso nella penombra per scivolare lentamente sul divano di pelle in salotto.
Ero quasi addormentato quando sentii distintamente dei rintocchi provenire da non molto
lontano.
Aprii lentamente gli occhi di nuovo e ascoltai con maggiore attenzione. Capii subito che
non erano dei rintocchi, ma dei passi. Passi che rimbombavano e mi raggiungevano come dei
colpi di cannone.
Con il cuore in gola scesi dal divano e molto lentamente salii le scale, seguendo il
rumore, man mano più forte.
Mi ero appoggiato con il fianco sinistro sul muro, mentre mi avvicinavo al rumore. Le mani
iniziarono a sudarmi, nonostante fossero gelide. La porta della mia camera da letto - dove
i rumori erano molto più intensi - mi piombò inaspettatamente davanti. Solo allora mi si
presentò la cruda verità: c'era qualcuno nella stanza e avrei dovuto affrontarlo.
Deglutii, rabbrividendo.
Contai fino a tre, poi appoggiai la mano sulla maniglia. La strinsi con vigore. Feci per
girare ma l'intruso mi precedette. E colpendomi in volto con la porta mi fece cadere
all'indietro sul pianerottolo. Mi portai una mano al naso sanguinante. Il dolore quasi non
lo sentivo talmente forti erano le scariche di adrenalina e paura che mi percorrevano da
cima a piedi.
Non c'era nessuno dietro l'uscio. O almeno, io non riuscivo a vedere nessuno.
Dei fruscii veloci avevano preso il posto dei passi. Rimasi ad ascoltare paralizzato.
Quando il tintinnio della campanella che avevo attaccato al fondo del letto mi fece gelare
il sangue.
Smisi di respirare, sentivo chiaramente il cuore pulsarmi nel petto e nelle tempie. Un
rivolo di sudore scese dalla fronte, andando a terminare la sua corsa sotto l'occhio
destro.
Qualcuno, in camera mia "gracchiò" e salì sul letto, mettendo voce alle doghe
cigolanti che reggevano il materasso.
Un altro, un rantolio, e poi iniziò a respirare rumorosamente, con qualche affanno.
Mi rizzai in piedi come potevo, le gambe erano tornate molli, come poco prima, nel
giardino dei Kepplen.
Feci due passi in avanti, il qualcuno nella stanza evidentemente mi sentì e saltò giù
dal letto con un tonfo sonoro. Corse qualche secondo per poi fermarsi, ansante.
Come una saetta mi piombai in camera, impugnai la mazza da baseball che tenevo su un
tavolino vicino al letto e mi guardai intorno frenetico, sventolandola in qua e in la. Sul
letto c'era uno strano liquido giallastro, schiumoso, che ricadeva sul pavimento in una
pozzanghera di notevoli dimensioni. Sentii un crampo allo stomaco, forse stavo per
vomitare.
Ma la paura ebbe la meglio sulla nausea. Perché vidi quello che non avrei mai voluto
vedere: i due piedi di prima, quelli in casa dei Kepplen, spuntavano da dietro la tenda
della portafinestra che si affacciava sul cortile.
Le due ciabattine a fiori rosa, inconfondibili, con la pelliccia intorno. L'unica
differenza rispetto prima era che la ciabatta alla mia destra era ricoperta da quella
sostanza che riposava sul mio letto. E il piede, di sotto, pulsava. Su e giù.
Fu una questione di secondi. Una mano nera e avvizzita, anch'essa sporca della sostanza
gialla, strappò di netto la tenda, lasciando intravedere la persona che si stava
nascondendo. O almeno credevo fosse una persona. Perché la sua faccia marroncina
ricoperta di bubboni e cicatrici, con dei fili di sangue che vi scorrevano sopra, non
poteva appartenere ad un essere umano.
Lo straccio che indossava era logoro, di un bianco che era quasi diventato nero. E
gocciolava del liquido giallo.
Rimasi impietrito. La mazza mi cadde di mano. Non riuscii ad evitare lo
scontro. Mi saltò addosso con un balzo felino, sibilando. Vidi i suoi denti gialli e la
bava che spruzzava da un foro nella guancia.
Reagii quando era troppo tardi. L'odore, il suo odore, nauseabondo mi riempì le narici.
Era acre, e maligno al tempo stesso. Sapeva di morto. Mentre mi azzannava al petto grugnì
e rantolò, come un animale. Poi, mi osservò per un attimo, prima che mi infilasse le
dite nelle narici. Il dolore era immenso. Saliva, saliva, cercava di addentrarsi nel mio
naso. Finchè sentii uno strappo. Mi aveva staccato la cartilagine e rideva in un ghigno
malefico. Lentamente, mi leccò, assaporò il mio sangue.
- Mi dispiace... signor Noose. - ruggì.
Solo allora ricordai dove avevo visto quelle ciabatte. Le avevo notate un giorno, mentre
ero da Adele Toth a prendere un caffè. Uno dei pochi caffè che abbiamo preso insieme.
Solo allora capii che quel mostro era Adele, ma era troppo tardi.
Poi, alzò le due dita che aveva utilizzato per strapparmi il naso e le infilò negli
occhi.
Non vidi più nulla, il sangue mi ostruiva la gola.
E alla fine, anche il dolore era scomparso.
Alla fine, era giunta la fine.