Ritornai
definitivamente nella pensione sapendo che sarebbe stata per sempre la mia
prigione. Tutto, in verità, era iniziato casualmente, in un grigio
pomeriggio autunnale. Parigi era immersa in un sogno di nebbia e fumo con i
caffè occupati da anime fascinose, dai sorrisi artificiosi e pensieri di
tenebra. Ero arrivato in città, attirato da sogni di gloria, e occupavo una
stanza piccola e fredda da due settimane. Un mattino avevo incontrato in un
locale Ezra Pound. Austero, carismatico, ma cordiale, aveva acconsentito ad
ascoltare alcune mie poesie, lette dal sottoscritto con voce incerta. Dopo
aver riflettuto a lungo, mi disse che la poesia deve assomigliare a un
angelo. Ogni creatura celeste degna di questo nome, continuò, è dotata di
ali ben sviluppate, capaci di fargli spiccare il volo. E purtroppo,
concluse, la mia poesia non aveva tali ali. Ne ero già, inconsciamente,
consapevole; ma il giudizio di Pound mi ferì, ponendo fine alle mie
fantasie. Devo tornare al paese, quindi?, mi chiesi, e affrontare lo sguardo
sprezzante di mio padre? Una parte di me si rifiutava di prendere in
considerazione l’ipotesi. Ma un’altra parte, più pragmatica, mi diceva che
non esistevano alternative.
Quel pomeriggio, quindi, ritornai nella stanza che occupavo, in una pensione
gestita da Madame De Rais, una vecchia acida che non nutriva particolare
simpatia nei miei confronti. Entrai nell’atrio e la vidi, intenta a spazzare
il pavimento. E fu allora che sentii, provenienti dall’ultimo piano, note di
violino, ipnotiche e... strane. Malgrado la loro bizzarria, però, c’era
qualcosa di ammaliante in esse.
“Chi è che suona?” chiesi a Madame De Rais.
Sbuffando, rispose, simulando a stento l’astio che le suscitavo: “Uno
scioperato arrivato da poco! E non intende smetterla!”
Non aveva senso discutere e mi recai in camera mia. Inutile dire che la
musica continuò ad ossessionarmi. La sinfonia isterica eseguita dal
misterioso inquilino si era impossessata della mia anima, come un demone
sonoro.
Quella notte la trascorsi dormendo a stento. Di tanto in tanto, però, in un
barlume di sogno, risentivo le note insistenti.
Mi svegliai presto e mi accorsi che il violinista aveva ricominciato a
suonare. Chiunque altro si sarebbe infastidito. Ma ero sempre attratto dalla
musica. Vincendo la timidezza, spinto da un impulso che non sapevo definire,
dopo essermi lavato e rivestito, decisi di andare da quell’uomo. Occupava la
stanza all’ultimo piano. Bussai alla porta e, per un istante, la musica
cessò. E il violinista venne ad aprire.
Non era bello. Ma negli occhi c’era luce rossastra. I lineamenti del viso
erano marcati e aggressivi e la bocca piegata in un impercettibile, crudele
sorriso; i capelli lunghi e scuri, sciolti sulle spalle; l’età
imprecisabile. E in mano, naturalmente, aveva il violino. Senza permettermi
di parlare, disse, per prevenire una lite: “Lo so, ho esagerato. Chiedo
scusa se l’ho infastidita. Ma quando la musica prende il sopravvento mi è
impossibile resistere.”
“Oh, no, mi ha frainteso. La sua musica è piacevole.”
Mi fissò stupito, come se avessi detto chissà quale enormità. E poi, quasi
parlando tra sé, disse: “Piacevole... la definirei in tante maniere... ma
non così.”
“Mi perdoni, io...”
“Non c’è niente da perdonare, signor...”
“Pierre.”
“Vuole accomodarsi, Pierre?”
“Certo. La ringrazio.”
Mi fece entrare nella camera che non era migliore della mia. C’erano un
tavolo, alcune sedie, un letto appoggiato alla parete. Su una sedia, un
gatto nero dalle pupille fosforescenti mi fissava immobile. Sul tavolo,
notai numerosi spartiti. Il violinista mi invitò a sedere, indicando una
delle sedie, cosa che feci immediatamente, imitato da lui. A una delle
pareti era appeso il ritratto di una donna dalla bellezza stupefacente. Una
meraviglia dai capelli biondi e ricci, un volto ben disegnato e occhi neri e
ammalianti.
“La mia signora” disse, sempre osservandomi, come se stesse analizzando un
fenomeno incomprensibile.
“Complimenti” dissi. “Lei è davvero fortunato.”
“Non è mia moglie. E nemmeno la mia amante.”
“Oh.”
“Magari potessi dire una cosa del genere. Ma non le interessano gli uomini.
Solo la musica. Cosa ne pensa, Pierre?”
“Della musica? Be’, è intrigante. Da quanto tempo suona il violino?”
“Più o meno da... diciamo da quando ho conosciuto la signora. Lo facevo
anche prima, in verità, ma non ero bravo. Uso uno Stradivari. Un ottimo
strumento. Ma che scortese. Non le ho offerto niente e non mi sono nemmeno
presentato.”
“Non c’è bisogno di offrirmi alcunché.”
“Io mi chiamo Valdemar.”
“Piacere di conoscerla, Valdemar.”
A questo punto, l’enigmatico Valdemar, seriamente, disse: “Posso leggere nel
suo viso la mia storia. È venuto a Parigi per diventare un artista. Ma noto
l’ombra della disillusione nei suoi sguardi. Io volevo essere un violinista.
Decisi di venire qui ma... capii subito di non avere talento.”
“Ma non è vero.”
“Oh, allude alla musica. Ma vede... è la musica l’elemento sublime. Non
certo io. La musica è una forza energetica ideata negli abissi, capace di
contaminare anime deboli. Nelle schiere celesti, malgrado ciò che potrà
forse aver sentito, non si ascoltano suoni di arpa, non esistono melodie. La
musica è l’invenzione dell’angelo caduto. Una sua creazione. Lei è un
poeta?”
“Secondo Ezra Pound, no. E ha ragione.”
“Non tutto è perduto, glielo assicuro. Io non ero un vero violinista. E oggi
eseguo musica oscura per la signora. Vorrebbe incontrarla? Può aiutarla.”
Osservai il quadro. E poi il gatto nero. Sentivo di essere in pericolo. Ma
c’era la musica, impressa nella memoria.
“Dove posso trovarla?” chiesi.
Valdemar mi diede un indirizzo, dicendomi che sarebbe stato meglio andare
subito da lei. E se l’incontro avrebbe dato gli esiti sperati, aggiunse, in
seguito, da poeta, avrei potuto scrivere versi in suo onore. Magari da usare
con la musica.
Come in un sogno, mi ritrovai presto in un altro locale. La sera era
arrivata e non c’erano molte persone. La vidi, irresistibile come una sirena
dei tempi andati che confonde i marinai con il canto. Seduta a un tavolo,
inguainata in un abito turchino e aderente, truccata da musa surrealista, mi
guardò freddamente, dicendo: “Il poeta è venuto a trovarmi.”
“Mi... mi conosce?”
“Io conosco tutti. Prego, mi faccia compagnia.”
Mi sedetti, a disagio. Avevo avuto a che fare con belle donne. Ma lei era
diversa. Beveva un liquore verdastro, forse assenzio, e immaginai la fatina
verde inserirsi nella psiche, simile a un tarlo mentale, accompagnata dalla
sinfonia isterica del violino.
“Ha ascoltato la musica di Valdemar, quindi” disse la signora.
“Sì.”
“E’ bravo. Sono stata io a donargli il fuoco sacro. La musica è una delle
mie armi più efficaci. Il mondo è dominato da note di ogni genere. È con
quelle che mi manifesto.”
“Io...”
“So che vorrebbe farmi domande, Pierre. Sì, conosco il suo nome. Io so
tutto. Non è importante per lei sapere in che modo. Ora mi dica, vuole
diventare un poeta?”
“Certo.”
“Ad ogni costo? Il prezzo da pagare è alto.”
“E quale sarebbe?”
“Scriverà per l’eternità poesie dedicate a me. I suoi versi si uniranno alla
musica di Valdemar. Ma rimarrà per sempre prigioniero del sacro fuoco. Per
alcuni è uno stato mentale. Per altri anche un luogo fisico.”
Non potei rifiutare. La musica non mi concedeva tregua. E la bellezza della
signora era invincibile. Feci un cenno affermativo con il capo, capendo di
aver guadagnato qualcosa, la creatività; e di aver perduto la libertà. La
signora annuì e compresi che era giunto il momento di congedarmi. Uscendo
dal locale, incominciai a comporre versi nella testa. Nascevano spontanei,
come fiori del male. Non si fermavano, alimentati dalla musica. E mi accorsi
di essere diventato un poeta e di aver venduto l’anima. Con gioia
malinconica, rievocai l’inizio della storia. Quando rientrai nella pensione,
la musica di Valdemar proveniva ancora dall’ultimo piano. All’ingresso,
Madame De Rais mi aspettava, ma priva della severità che la caratterizzava.
Adesso in lei c’era consapevolezza.
“L’ha incontrata?” mi chiese.
“Sì.”
“E’ caduto nella rete, dunque.”
E aggiunse: “Raggiunga Valdemar. Ascolti la musica. E faccia ciò che deve.”
E Valdemar mi accolse con un sorriso triste. Dopo suonò a lungo, mentre io
scrissi versi, ispirato dalla melodia. In seguito, alla fine
dell’esecuzione, conclusi di essere intrappolato nel fuoco. E sarei rimasto
definitivamente nella pensione, sapendo che sarebbe stata per sempre la mia
prigione.