Camminavo
solo, le mani sprofondate nelle tasche del cappotto; intorno a me, buio e silenzio,
interrotto a tratti solo dal rombo sordo di una macchina che passava in qualche strada
vicina.
Mi accesi una sigaretta, avvertendo sulle mani, strappate dal caldo ricovero delle tasche,
un'ondata di freddo pungente che presto le arrossò intorpidendole, costringendomi a
rimetterle in tasca lasciando la sigaretta pencolante all'estremità della bocca.
Camminavo solo, di notte, ma non avevo paura; non c'era più ragione al mondo di avere
paura, non da quando, pochi anni prima, l'eminente professor Harris, dell'Università del
Vermont, aveva finalmente scoperto la Formula.
Era questa breve sequenza di segni, simboli ed operatori matematici, il risultato di studi
decennali, volti dapprima, complice la smisurata e bestiale presunzione dell'uomo, a
scoprire la radice fisica di ogni passione umana, di ogni spasimo, di ogni lacrima e di
ogni sospiro, ma ridotti in seguito per insormontabili problemi di analisi e di
laboratorio legati alla immensa mole di dati necessari, alla ricerca del principio di un
solo sentimento.
Così, dopo congressi, riunioni, simposi, appelli e quant'altro, si era giunti alla
conclusione che l'emozione prima da indagare dovesse essere proprio la paura, da sempre
primo freno alle sconfinate possibilità umane.
Man mano che la ricerca procedeva, sovvenzionata da enti, associazioni e addirittura
Stati, interessati per i più disparati motivi alla buona riuscita dell'operazione, si
facevano sempre più commenti, felicitazioni ed auguri alla squadra di esperti impegnata
nel titanico compito; e si dissertava sulle incredibili conseguenze che la scomparsa della
paura (perché, anche se nessuno lo avesse detto espressamente, tutti ritenevano scontato
che il passo immediatamente successivo alla Grande Scoperta, così ci si riferiva in quel
tempo al risultato che la ricerca si prefiggeva, sarebbe stato quello di eliminare per
sempre la paura dall'animo umano, procedendo così gli scienziati in modo non difforme da
quello con cui si studiano le malattie incurabili) avrebbe avuto sull'umanità.
Non solo; si discuteva anche molto, non senza rimpianti, su come gli effetti benefici
della Scoperta avrebbero potuto influenzare, se disponibili allora, le più significative
vicende della storia umana. E ci si rammaricava così pensando a quante vittorie militari
si sarebbero potute ottenere disponendo di eserciti ai quali la paura fosse stata
sconosciuta, quante imprese, esami, difficoltà e crisi sarebbero parse irrisorie a chi
non avesse dinnanzi a loro tremato e sudato freddo, dibattendosi nell'incertezza e
affogando negli infiniti meandri del possibile; i più sensibili pensavano anche (ma
custodivano, per una sorta di ritegno, questi pensieri per loro stessi) anche a quanti
amori sarebbero potuti nascere se alla loro origine non fossero stati minati dalla paura
di essere rifiutati, i più impacciati pensavano che, sconfitta la paura, le donne
bellissime a cui non si erano mai nemmeno avvicinati, sarebbero state facili prede,
irretite da una parlantina svelta e pungente, non più mortificata dalle balbuzie e dai
silenzi che la paura crea, tiranno, in gola.
Si pensava tutto questo e, con deprecabile approssimazione, si delineava un futuro roseo
di certezze, luce e fiducia, come se dalla scomparsa della paura potesse dipendere la
sopravvivenza della stirpe umana.
Così, salutata da un consenso unanime e benedetta dal mondo intero, in una luminosa
mattina di Settembre, la Formula fu divulgata da un raggiante portavoce del professor
Harris, essendo lo stesso impossibilitato a farlo perché impegnato in un colloquio
privato col Papa, il quale aveva a lungo insistito per essere la prima autorità a
conferire con l'artefice della Scoperta.
Ora, dopo anni di congetture e di, ormai anacronistiche, paure, la Formula era là, bella,
ordinata, inoffensiva dimostrava, secondo il portavoce a cui brillavano gli occhi per la
foga, come una data catena di amminoacidi, di minuscole cariche elettriche dell'ipotalamo
e di reazioni nervose, fosse in grado, nella sua disarmante e meccanica semplicità, di
paralizzare l'altrimenti eccellente funzionamento del nostro cervello.
Mentre ancora il mondo si ubriacava di gioia per la Scoperta, già nelle umbratili sale
del potere si dava inizio ad una furiosa gara d'appalto per stabilire chi avrebbe potuto
fruire in esclusiva della Formula per realizzarne, finalmente, quello che tutti
aspettavano con trepidazione, l'antidoto.
Vinta che fu la gara da un colosso farmaceutico di Chicago, Illinois, nel breve volgere di
pochi mesi l'antidoto alla paura fu finalmente pronto all'immissione sul mercato mondiale;
in meno di una settimana il rivoluzionario preparato fu acquistato a profusione in tutti
gli angoli del mondo, fruttando denaro e gloria ai suoi ideatori.
L'antidoto era la magia che tutti aspettavano; bastava inocularlo sotto la cute una volta
al mese e lui, silenzioso ma implacabile andava a paralizzare quei punti da cui fino al
giorno prima si dipartivano implacabili gli impulsi terribili della paura.
In poco tempo il mondo cambiò volto: la spavalderia di facciata sotto la quale tante
persone celavano la propria insicurezza divenne di colpo tronfia ostentazione di
tranquillità, gli emotivi, la cui vita si trascinava prima in un turbine di dubbi, ansie
e ripensamenti, erano adesso trasformati in individui freddi, calcolatori e vincenti; i
bambini non piangevano più la notte, né vedevano sagome rannicchiate dietro la porta,
pronte a saltare fuori appena la mamma ha spento la luce.
L'antidoto fu un successo planetario, e in poco meno di un anno si stabilì, con un
inedito precetto di diritto internazionale, che l'antidoto "per la sua riconosciuta
azione benefica" dovesse essere assunto obbligatoriamente da tutti gli abitanti del
mondo; si istituirono all'uopo apposite commissioni transnazionali, con il compito di
portare l'antidoto in ogni remoto angolo della terra e di somministrarlo a chi ne fosse
ancora privo.
Data l'eccezionale rilevanza del progetto e l'impegno profuso dai membri delle
commissioni, nello storico discorso del 31 Dicembre di tre anni fa, il segretario generale
dell'ONU, da sempre fiero assertore del progetto, comunicava, visibilmente commosso, che
ogni abitante del Globo era stato finalmente liberato dal più antico nemico dell'uomo: la
paura.
Fu quella una notte di San Silvestro memorabile: in tutte le piazze folle festose si
riversarono in preda alla felicità, fiorirono abbracci e scorsero lacrime di gioia; per
la prima volta nella sua storia, l'uomo era riuscito a sconfiggere se stesso, e l'avvenire
era gravido di soddisfazione e di tranquillità.
Tre anni erano passati, e già si parlava di meno del portentoso antidoto; quando era il
momento (e lo si sapeva sempre, debitamente informati da apposite cartoline ministeriali),
ci si recava nelle competenti aziende sanitarie ad eseguire il richiamo, come fosse un
comune vaccino, e ci si scordava di quando avevamo ancora paura.
Pensando a questa fortuna, camminavo solo, di notte, senza avere paura.
Ad un tratto però, forse per un improvviso abbassamento della temperatura, forse per un
ovattato rumore di passi che iniziai ad udire dietro di me, o forse per un altro motivo
che non saprei spiegare, iniziai a sentirmi a disagio.
Non avevo paura (e come avrei potuto averne?), e tuttavia sentivo qualcosa in me che
funzionava diversamente da pochi attimi prima. Quando dal nulla buio ed immobile che si
stendeva oltre un basso muretto di cinta alla mia destra (Casa? Prato? Parcheggio? Chi lo
sa?) udii provenire un lamento, lungo, straziante, carico di un'angoscia indicibile,
accelerai il passo, conscio anche del fatto che i passi che prima sentivo morbidi e
distanti, adesso battevano con insistenza pochi metri dietro le mie spalle, dritte e
sicure.
Accelerai sensibilmente l'andatura, sorpreso di sentirmi sudare, nonostante il freddo
intenso; tutto d'un tratto il buio intorno a me si era fatto più greve e minaccioso, e
folate di vento gelido ed inospitale sferzavano il mio volto e le mie certezze.
Un fruscio dietro di me, e non ce la feci più: cominciai a correre a perdifiato, cercando
disperatamente, ma senza riuscirvi, di reprimere un urlo animalesco e disperato che mi
montava, libero e terrificante, in gola.
Urlai, sperando di non spaventare nessuno.