Follia - ultime ore di un condannato a morte

Sono qui, disteso sul freddo pavimento di pietra, con l'oscurità che mi circonda, con niente altro da fare che il pensare.
Non posso leggere, i miei occhi ormai sono abituati alla fioca luce delle lampade di fuori nel corridoio, che sembra tanto una passerella verso la morte, non più in grado di focalizzare i piccoli caratteri che ci sono stampati nei libri o scritti nelle lettere.
Non che ne abbia bisogno, in fondo, nessuno mi scrive, se non per dirmi quanto mi disprezza, e i libri hanno smesso di importarmi da almeno dieci anni.
Non è tanto il fatto di non poter leggere, quindi, ma più che altro il fatto di non poter passare il tempo in nessun altro modo che rimuginando con me stesso di cose che non voglio, che non vorrei che esistessero o fossero mai accadute, che vorrei tanto dimenticare, ma invece ritornano, ogni notte, e mi perseguitano senza speranza.
Sono raggomitolato in un angolo, con la polvere che mi entra nelle narici e me le solletica continuamente, un mostro nascosto nel buio, in attesa di scontare la condanna che verrà.
Mi bruceranno sul rogo come le streghe, mi sgozzeranno come un maiale, mi scuoieranno come un capretto, ma, in fin dei conti, è quello che mi merito.
Il silenzio mi circonda come una cortina malvagia, e mi accarezza e sfiora come un alito di morte, minacciandomi, annunciandomi che la mia ora è ormai giunta, che lei sta per venire a prendermi, per condurmi nell'unico luogo capace di accogliermi, le bolge infernali.
Anche se non li sento, posso però avvertire lo stesso la loro presenza, come quella degli scarafaggi che strisciano nella penombra e mi passeggiano accanto, ignari quasi della mia presenza, del mio dolore, del mio strazio.
Ci sono e sono ben vividi, i ricordi di un tempo che fu e che ora non esiste, immagini piene di luce e di gioia, di risate argentine affievolite dal sangue che è sgorgato, versato su piccoli petti innocenti, che tornano, sempre, inesorabilmente, prendendomi alla sprovvista e sbeffeggiandomi, tirandomi per i capelli come gli arcangeli caduti che servono il diavolo, con quelle grandi e lunghe ali nere, crudeli, che mi puntano contro il dito e attendono di potermi prendere.
So che prima o poi ce la faranno: quando la fine arriverà, sarò nelle loro mani, e allora, davanti al cospetto di Dio, dovrò guardare il libro dei miei peccati e tirar la linea sotto le somme, rendendomi conto di quel che ho commesso, e i miei figli saranno lì a guardarmi, a perdonarmi, a toccarmi un'ultima volta, prima che l'oblio si spalanchi sotto i miei piedi e mi inghiotta in un inferno ustionante e soffocante, senza fine.
Mi alzo ogni giorno e guardo l'alba dalla piccola finestrella della mia cella, e mi chiedo come questo possa essere successo veramente, come un uomo semplice e onesto sia potuto finire nel braccio della morte, a pochi minuti da un'esecuzione.
Conosco la risposta, ma tutte le volte sono certo di non volerla sentire.

Ho compiuto il male, il peggiore forse che un essere umano possa compiere su questa terra, sono un assassino e non uno qualunque, e, anche se di quei momenti ricordo poco o nulla, ho tuttavia impresso nella memoria il piacere meschino che ho provato quando quei loro piccoli colli si sono spezzati sotto le mie dita.
I loro sorrisi mi circondano e abbagliano, mentre dei passi risuonano nella quiete ferma del corridoio: sono loro, ma non sono qui per me, non stavolta.
Una porta viene aperta e i loro capelli biondi sono di nuovo fra le mie mani, non sporchi di sangue come l'ultima volta, ma tersi e puliti, profumati di uno shampoo infantile e di un odore del tutto particolare.
Il mio vicino di cella sta urlando: non è ancora pronto per questo, per il giudizio, eppure è stato ben pronto, sette anni fa, a premere il grilletto contro la sua povera moglie incinta.
-Muori con onore, Cal - sussurro, senza che possa sentirmi.
Le sue grida risuonano come campane domenicali nell'ampio corridoio, mentre viene condotto nella sala della morte.
Sento i rumori affievolirsi, così come i suoi passi, lenti, strascicati.
Il suo destino è anche il mio, e presto gli angeli bianchi torneranno per me.
C'è stato un tempo in cui avrei creduto qualsiasi cosa e c'è stato un tempo in cui avevo tutto.
Cambio posizione sulle pietre dure, mi sdraio e contemplo il nulla assoluto sopra la mia testa: loro sono qui con me,  e ridono.
- Dov'è la mamma?- mi chiedono.
Mamma dorme, piccoli. Lasciatela stare.
L'aria si è rarefatta, i muri si fanno più vicini… Così vicini… Troppo vicini, posso quasi percepirli mentre si chiudono sulle mie povere membra distrutte.
Il silenzio è così fermo, adesso, che posso riuscire a sentire i battiti del mio stesso cuore, veloci, irregolari.
I minuti passano, così come sono trascorse le ore.
Non manca molto, ormai.
-Papà?-
Vieni, tesoro. Prendi tuo fratello, usciamo.
-Perché mamma non respira? -
Ha tanto sonno, tesoro. Vieni.
-Dove andiamo? -
Nel bosco.
E finalmente, dopo tanto tempo, sono di nuovo là, per davvero, con le alte querce che mi circondano e l'odore pungente del muschio nelle narici.
La cella non esiste più: sono all'aria aperta, in un posto bellissimo, con loro. Nient'altro.
- Bobby dice che mamma sanguina. Perché mamma sanguina? -
Perché mamma è stata cattiva. Voleva portarvi via.
Ora nulla ci avrebbe più separati.
NULLA.
Vieni, Bobby, piccolo. Dai un abbraccio a papà. Anche tu,  Billy.
I loro capelli biondi… Come fili d'oro, scaglie di sole, fra le mie dita… E quelle loro manine… Piccole, delicate…
Mi abbracciano, ancora, senza timore, ignari.
Li stringo a me fortissimo, quei loro colli, tanto sottili da stare in una mano... E i loro occhi, enormi, nella consapevolezza finale, mentre inesorabilmente si spezzano… Un piccolo guizzo, poi più nulla, solo quattro laghi chiari che puntano offuscati verso il cielo, cercando un qualche cosa di indefinito.
E' la fine.
Il buio è ritornato, le querce sono svanite, tutto è polvere e silenzio.
La luce fioca del corridoio trema: stanno tornando, e questa volta è per me.
Mi alzo, lancio un'ultima occhiata in giro, pur non vedendo molto, ma, dopotutto, è qui che ho vissuto gli ultimi 5 anni. I MIEI ultimi.
La porta si apre in un boato di lamiera, mentre nel forte bagliore che penetra il nero che mi avvolge vedo le figure dei due angeli che mi aspettano.
Sono bianchi, enormi, hanno sembianze umane, eppure rappresentano il giudizio celeste.
- Seguici. - mi comandano, mentre eseguo prontamente.
Comincia così la mia camminata verso l'aula, finisce così la mia fredda esistenza: so già quello che mi attende e quello che sto per sentire.
- Paul Coogan - diranno - Hai ucciso tua moglie e i tuoi figli. Lo sai qual è il verdetto? -
Lo so: i diavoli alati spalancheranno i cancelli dell'oblio ad accogliermi.

Elettra Taddei