Inquisizione

Una fitta penombra entrò nella stanza desolata e polverosa. La piccola finestra era sigillata con sbarre di ferro, e la fioca luce del giorno che talvolta entrava nei sotterranei era ostacolata da quelle nere lastre opache. Il tempo sembrava immobile, e le ore trascorrevano lente, una simile all'altra. Un rumore di passi si fece udibile, lento e smorzato dagli echi che rimbombavano nelle scale che s'arrampicavano faticosamente in spirali verso i piani superiori. I deboli fuochi di quel sotterraneo stretto e roccioso, sostenuti a mezz'altezza da nere e polverose aste di ferro, danzavano lentamente. Erano come tristi movimenti di morte: come se le fiamme appena luccicanti annaspassero in cerca di aria.
Talvolta dall'ombroso soffitto cavo precipitavano pesanti gocce d'umidità polverosa, cosicché il fuoco sibilava rumorosamente, e sbalzi di ombre e fiochi bagliori di luce s'alternavano irregolarmente in quello spiazzo sabbioso e sporco. Pochi attimi dopo, il rumore dei passi cessò, ed una figura fu appena visibile all'ombra di uno stretto corridoio che faceva ad angolo con quella sala. I piedi indossavano stretti sandali scoperti, che affondavano vistosamente nella cenere sabbiosa al suolo. Indossava una tunica nera stretta ed un cappuccio scuro forato all'altezza degli occhi. Qualcosa nell'ombra scintillava, qualcosa d'indistinto, ma che ben rifletteva il debole fuoco delle fiaccole. Quella sagoma scura si fece avanti e, poco dopo, era circondato dallo scialbo alone di luce. Le braccia scoperte erano muscolose e ricoperte di pelo. Le vene pulsavano di sangue e creavano come dei solchi ombrosi, scavando nella pelle dura. Le mani erano forti e callose, e stringevano una lunga mannaia lucida. Il collo era appena scoperto, lì dove finiva la tunica cominciava il cappuccio. L'uomo era ben piantato sui piedi, praticamente scalzi, e si guardava attorno come se fosse la prima volta che entrava in quel sotterraneo. Il corpo era gonfio, e la tunica sembrava come se, ad ogni attimo, stesse sul punto di strapparsi, tanto era tesa. All'altezza della vita era allacciata una cinta di cuoio scuro, che aveva, proprio sull'ombelico, un teschio logoro e scalfito. Gli occhi sembravano scintillare, riflettendo una luce aliena ed abbagliante. Rimase in silenzio per qualche attimo, poi riprese ad avanzare con andatura lenta e strascicata. Ad ogni passo la polvere sotto i suoi piedi si alzava leggera e volteggiava creando come fumi silenziosi nell'aria ferma e viziata. L'uomo passò oltre la fiaccola che dava luce a tutta la stanza, ed arrivò a circa tre metri dall'alta finestra che dava sul mondo esterno, dove parte della sala era recintata da sbarre scure, come quelle che ornavano l'apertura sulla sua testa. Questa parte di terra, larga circa dieci passi, era a sua volta suddivisa in tre aree, recintate anch'esse, cosicché venivano a formarsi tre gabbie di ferro e polvere.

L'uomo si guardò attorno, ed estrasse da una tasca della sua tunica, nera come la pece, una chiave arrugginita. Mantenne la mannaia con una sola mano, senza fatica, ed infilò la chiave nella serratura spigolosa sul cancello della cella di sinistra. Spalancò la porta con le sbarre, e tese la mano in avanti. D'improvviso la stanza si riempì di echi di dolorose grida. Un uomo venne portato alla luce, afferrato per le gambe. Era un molto piccolo, rispetto a quello che lo stava trascinando fuori dalla sua gabbia, e tendeva le mani indietro cercando di raggiungere una delle sbarre. Le mani formicolarono per terra, strisciando nella polvere e sentirono il gelo del ferro a cui s'annodarono istintivamente.
Il gigante vestito di nero tirò con forza le gambe del prigioniero che continuava a gridare piangendo, implorando pietà, cercando di arrampicarsi sui levigati specchi della morte. Il respiro affannoso e gli sbuffi di pianto facevano da sfondo ai rimbombi dei tonfi del corpo che si agitava sulla sabbia, ed alle voci di preghiere.
Nella gabbia accanto, quella centrale, due occhi brillarono nell'ombra. Poi, il corpo rimasto assopito dal sonno, si lanciò goffamente dall'altra parte della stanza, cercando di non farsi vedere e restando nell'ombra, ad occhi chiusi, per tentare di riuscire a sopravvivere ancora un giorno. Con le piccole mani grigie di polvere, si coprì le orecchie, tentando di sfuggire con la mente ciò che stava accadendo. Si rannicchiò in un angolino buio e sudicio, ed aspettò in silenzio che tutto finisse. Le grida erano sempre più forti, e sempre più roche. Sembrava come se da un momento all'altro la gola fosse lacerata dalla voce che fuoriusciva con impeto tale da sembrare vomitata. Più le gambe venivano tirate fuori dalla cella, più le mani s'avvinghiavano disperatamente contro le sbarre. Gli occhi impolverati asciugavano di ceneri le lacrime che, ogni tanto, si vedevano brillare. Il boia lasciò la presa per un attimo, ed il corpo del piccolo uomo cadde sulla sabbia. Le grosse mani afferrarono la pesante mannaia che venne fatta roteare sulla testa. Il colpo venne portato con violenza disumana. Le grida aumentarono. Sembrava di assistere ad un macello di bestiame. La mano destra del prigioniero rotolò al suolo, staccata dal polso, e già fredda della morte.
Schizzi di sangue imbrattarono le pareti rocciose scure. Quando zampilli scarlatti colpirono il viso dell'uomo in silenzio, rannicchiato, egli si coprì ancora di più le orecchie.
Le braccia accantonarono per un momento l'arma gocciolante, ed entrambe le grosse mani gonfie afferrarono nuovamente le caviglie del prigioniero agonizzante: questa volta non dovette usare molta forza. Il boia si mise l'uomo in spalla e riprese la sua mannaia. Si allontanò in silenzio, risalendo le scale, scomparendo nell'ombra. Presto anche le grida cessarono...
Il prigioniero della cella di mezzo rimase immobile, con il viso irriconoscibile dalla sudicia polvere e dal sangue. Immobile nel silenzio, si mosse solo quando le sue orecchie, sebbene coperte dalle braccia magre udirono una dolce sinfonia.
Veniva dal piano superiore: dolci note ed accordi si alternavano in un rincorrersi di tasti e di dita. L'uomo si alzò in piedi, spostando lo sguardo verso la finestra. Era notte, e non si era neanche accorto che la luna era già alta nel cielo. La guardava, pallida e silente, mostrare per intero l'oscuro dragone in catene. Le nuvole grigie scorrevano silenziose, carezzate dal soffice vento gelido del buio. Si stese sulla polvere. Le mani affondarono nella pozza di sangue del suo compagno di sorte. Lo sentiva ancora caldo, ma non ebbe paura. Chiuse gli occhi e credette di tornare bambino. Quel dolce tepore era come l'abbraccio amoroso della sua mamma: rivide i suoi occhi blu, così profondi e dolci, i suoi capelli candidi e lisci, sottili. Il viso candido e la fronte bianca, le guance colorite e le braccia d'avorio cingerlo in un abbraccio d'affetti. Portò le mani sporche al viso e si sparse quel calore sulle guance e sulla bocca.
<< Dolce mamma...>>, voleva dire, se solo avesse avuto ancora la lingua per parlare...
La sinfonia finì, ed ora erano udibili solo parole di un uomo, il vescovo del paese:
<<...possa la pietà del Cristo darti la libertà, e l'infinita misericordia di Dio, il perdono che noi, miseri mortali, non siamo in grado di offrire...>>.
Il prigioniero si ricordò che tre erano le celle, e due erano i suoi compagni; ma uno era stato portato via. Doveva esserci ancora l'altro. Si avvicinò frettolosamente all'altra gabbia e tastò con le mani sudice il terreno polveroso, in cerca dei capelli della donna che era prigioniera, o delle sue braccia lisce. I polsi urtarono qualcosa nel buio. L'afferrò con le dita e lo strinse. Era ruvido e scalfito, e da principio pensò di aver afferrato un sasso. Era molto sottile e lungo. Un improvviso timore colpì il suo cuore: lasciò cadere ciò che aveva in mano e sentì un rumore sordo, come se quella strana cosa ne avesse urtata un'altra simile. Strinse i denti e cercò ancora. Le dita s'infiltrarono in qualcosa, due buchi poco profondi. Il piccolo fuoco divampò quando uno strato di polvere si avvicinò alla fiamma. La luce fu abbastanza per distinguere ciò che stava toccando. Se avesse ancora avuto la voce per strillare l'avrebbe di certo fatto. Ritirò via le dita dalle orbite vuote di un teschio scalfito e con ancora i capelli biondi. Si rannicchiò nell'angolo opposto a quello ed alzò gli occhi alla luna solitaria.
<<...che questo fuoco sacro possa condurti sulla via illuminata dalla fonte di luce divina..., che questo rogo possa illuminarti il cammino verso Dio..., che il cielo abbia pietà di te che sei solo un uomo...
Benedico in nome di Dio questa pira..., che i tuoi familiari paghino per una degna sepoltura...
Uomo, sei solo cenere nella mani di Dio...>>.
Il fuoco venne acceso, si capì dall'improvviso bagliore di luce che piombò nella stanza di sotto. Il condannato alzò grida al cielo, nascosto dal fumo nero e dalle fiamme alte che divampavano sul suo corpo.
Il prigioniero nel sotterraneo immaginò i suoi occhi languidi lacrimare per una vita che non aveva chiesto e che, nonostante tutto, lo aveva condotto alla morte. Pianse anch'egli, portando nuovamente, per l'ultima volta, le braccia sulle orecchie.
Ricominciò la dolce melodia e, con essa, i rimbombi lenti e prolungati di rumori di passi lungo le scale che s'arrampicavano faticosamente verso la cattedrale, al piano di sopra...

Iscariah