Usciva ogni
mattina alla stessa ora. Lo sapevo perché la sua porta d'ingresso era di legno e
probabilmente non veniva oliata da tempo. La casa dei suoi genitori si ergeva a pochi
metri dalla palizzata che divideva i nostri giardini e dalla finestra della mia camera
potevo vedere quasi tutto. Passavo ore a fantasticare su quella famiglia così bizzarra,
creando storie elettrizzanti e immaginando chissà quali orribili trame. Mi ricordo di
aver raccontato una di queste storie ad un pigiama party, qualche anno prima, a casa di
Monica, la mia migliore amica, e nessuno riuscì più a dormire.
Mio padre mi rimproverava di star troppo tempo a spiarli e parlava di privacy, sicuro che,
infondo, ogni famiglia era un po' strana a modo suo. Quel che è sicuro, però, è che non
lo vidi mai scambiare più di un cenno di saluto alla famiglia Graves.
Alle frequenti riunioni del quartiere spesso si parlava di loro e nonostante i numerosi
inviti, non si fecero mai vivi. Il loro giardino era una piccola discarica:mpezzi di
ferro, plastica, lattine d'olio per auto e addirittura un vecchio aratro arrugginito
attorcigliato da edera rampicante e chissà quali piante infestanti. L'architetto Poli
discuteva sempre animatamente di quell'appezzamento, di quanto quella casa rovinava il
buon gusto e declassava la via; sua moglie ("un'artista fallita" diceva mamma)
annuiva convinta come se le statue di pietra nel suo giardino fossero davvero arte. Quelle
statue invece facevano davvero rabbrividire
arte moderna diceva lei
Comunque tutta la via ancora si chiedeva da dove venissero. Il loro cognome era di sicuro
straniero ma nessuno era riuscito a scambiarci una parola. Nemmeno la signora Magda, la
più bigotta della zona, che aveva già riempito la cassetta postale dei Graves con
centinaia di volantini sulle iniziative della chiesa.
La cosa più strana era il loro caminetto. Mi chiedevo il perché di
tanto fumo e soprattutto perché in settembre era già acceso. Lo domandai durante la cena
a mia madre ma la sua risposta mi sembrò davvero poco credibile:
"Staranno bruciando i vecchi mobili e le scartoffie trovate in casa" diceva
mentre mi riempiva il piatto di insalata. "Ti ricordo che ci viveva il signor Marino,
era un notaio, chissà quante carte avrà lasciato dopo la sua morte!"
Il signor Marino era davvero una persona per bene ed era davvero ricco.
Sua moglie era morta da tempo e da anni si dedicava solo al lavoro. Lo vedevo spesso dalla
mia stanza mentre leggeva enormi volumi con la copertina in pelle marrone, libri noiosi
supponevo. Non aveva figli e così mi trattava come se fossi la nipotina che non aveva mai
avuto. Per il mio tredicesimo compleanno mi regalò un dizionario scientifico dicendomi
che sarei diventata di certo una dottoressa. Mio padre sorrise a quel regalo mentre mia
madre lo aprì spesso per risolvere i quiz televisivi.
Fin dai primi giorni mi chiese di chiamarlo nonno e per me fu davvero una grande gioia,
soprattutto per i regali. Nella mia camera ormai avevo moltissimi libri mai aperti, mi
aspettavo qualche gioco in scatola o una piscina di gomma come quella di Monica ma il
nonno non voleva saperne.
Un giorno di primavera andai a trovarlo ma in casa non c'era, nessuno sapeva dove fosse
sparito. Dopo qualche mese la casa fu messa in vendita ed arrivò la famiglia Graves.
Osservavo dalla finestra per ore ma ben poco si muoveva in quella casa.
Le serrande erano sempre abbassate e grossi tendoni neri impedivano alla luce di entrare.
Uscivano dal retro solo per andare a far spese ma nessuno mai sapeva dove si rifornissero.
Scrivevo pagine e pagine sui miei appostamenti e su quelli che pensavo essere dei serial
killer. Le parole scorrevano veloci descrivendo quel padre di famiglia alto e robusto, con
occhi scuri e barba incolta mentre bruciava cadaveri nel suo camino, aiutato da moglie e
figlia.
La figlia la vedevo solo al mattino presto mentre imboccava il corto vialetto, prima che
il sole sorgesse, controllava la cassetta della posta e tornava dentro. Il cigolio di
quella porta era da brividi, tipico dei film horror.
La scuola era iniziata da poco e tutti ci aspettavamo di vedere quella
ragazza alle lezioni. Lo scuolabus si fermava a pochi metri da quella casa ma non vedemmo
mai uscire nessuno. In classe cominciarono a girare voci maligne sui Graves; alcuni
genitori sospettavano che quella strana famiglia avesse assassinato il signor Marino per
prendere la casa a minor prezzo vista l'assenza di eredi. Qualcuno chiamò anche la
polizia che però non bussò mai alla loro porta perché nessun indizio sulla sparizione
del notaio portava a quella famiglia così silenziosa.
A volte invece sentivo dei forti rumori metallici provenire dalla casa. Una luce rossastra
fuoriusciva dalle strette fessure della porta. Io mi infilavo tutta sotto le coperte
mentre il cuore mi batteva forte.
Ogni due mesi i miei genitori cenavano a casa con dei loro amici: il
colonnello Artusi e il signor Pera. Il primo abitava infondo alla via mentre l'altro due
vie più in là.
Il colonnello era sempre gentile con noi. Mamma era orgogliosa di conoscere una
personalità così importante che aveva combattuto per la patria. Era un uomo elegante sui
quarant'anni. Aveva baffi brizzolati mentre i capelli erano ancora castani. Ci portava
sempre bottiglie di ottimo vino che teneva in cantina, la sua riserva personale la
chiamava. Non avevo mai visto dentro casa sua ma la immaginavo calda e accogliente. Viveva
solo e diceva sempre mi avrebbe aspettato e che mi avrebbe sposato. Io avevo solo sedici
anni ma sapevo che volevo un uomo così vicino.
Il signor Pera era biondino, aveva un naso enorme e spesso mentre parlava fissavo solo
quello. Credo lui lo sapesse ma forse ci era abituato. Era un po' scorbutico ma un grande
amico di papà fin dalla scuola. Lavorava in un'impresa edile e spesso ci faceva lavori
gratis in casa. Papà però gli teneva i conti, tutti volevano un amico commercialista.
Un pomeriggio, tornando da scuola, decisi di attraversare i campi di
granoturco per arrivare a casa. Fui sorpresa di vedere il colonnello appoggiato ad un
albero, appisolato. Mi vide e mi salutò con la mano. Quando gli venni vicino mi disse:
"Allora bella Susanna, che fai in giro a quest'ora?"
Sorrisi un po' imbarazzata e dissi: "Sto tornando da scuola, stasera viene a cena da
noi?"
"Ma certo! Ora però vado a casa, che ne dici di venire con me? Poi ti riaccompagno e
ceniamo assieme!"
L'entusiasmo con cui lo disse mi colpì e la curiosità di vedere la sua casa mi convinse
ad accettare.
Attraversammo tutti i campi fino ad arrivare sul retro della sua
casetta. Non l'avevo mai vista da quel lato e mi sembrò davvero cupa. Entrammo e lui mi
offrì subito qualcosa da bere.
La cucina era bianca e acciaio, fredda e poco illuminata. Non mi sentivo a mio agio e
niente era come me lo aspettavo. Il salotto aveva un divano semplice con una coperta verde
sopra, alla parete molte foto della guerra, di militari e sullo scaffale molti modellini
di aerei. Mi voltai verso di lui e lo vidi mentre mi fissava. Non era il solito affabile
colonnello dallo sguardo gentile: avevo paura.
"Forse è meglio che vada, colonnello. Non ho avvisato mia madre e sarà di certo
preoccupata" dissi cercando di oltrepassare la porta di ingresso rosso scuro.
"Posso darti almeno un bacio?" mi disse.
A quelle parole le mie gambe si misero a correre verso l'uscita ma lui mi placcò come un
giocatore di football. Caddi a terra e lo sentii mentre mi diceva di stare zitta, che mi
sarebbe piaciuto.
Gridai di smetterla ma mi diede uno schiaffo o forse un pugno, non saprei dirlo ora.
Sentivo un rivolo di sangue scendermi dal naso mentre la sua bocca si avvicinava alla mia
e mi baciava.
I suoi baffi mi pizzicavano mentre sentivo la sua lingua arrivarmi fino alla gola. Si
alzò e mi portò in cantina, lì prese un paio di manette e legò i miei polsi ad un tubo
che scendeva dal soffitto.
Non riuscivo a smettere di piangere mentre mi tagliava i vestiti con un coltello militare.
Poi non vidi più nulla. La benda sugli occhi era stretta e pizzicava. Pensavo a mia madre
che stava tornando dal supermercato, a mio padre con la calcolatrice in mano e la matita
dietro l'orecchio.
Sentivo il colonnello ansimare, spingere e pregavo finisse presto.
Quella sera il colonnello andò a cena dai miei genitori. Quando gli fu
comunicata la mia scomparsa si finse sorpreso e tornò a casa chiedendo di essere
informato appena io fossi tornata.
Dopo dodici ore dalla mia scomparsa si mobilitò la polizia. Passò di casa in casa a
chiedere informazioni senza nessun risultato. Trovarono nella mia camera i racconti sulla
famiglia Graves ed i sospetti caddero su di loro. Furono portati in centrale e la loro
casa perquisita da cima a fondo.
Nella loro cantina un poliziotto scoprì una finta parete dietro la quale furono rinvenuti
quattro cadaveri in avanzato grado di decomposizione. L'intera famiglia fu accusata di
omicidio plurimo.
Dopo qualche giorno la polizia li rilasciò: i cadaveri erano lì da molto prima della
loro venuta.
Il signor Graves era un fabbro, ecco il perché di tanti rumori, stava costruendo una
recinzione in ferro battuto. La figlia, invece era fotofobica ed aveva una malformazione
al viso. Una famiglia strana ma di certo non erano assassini.
Passarono i giorni e la polizia stava indagando su più piste: i quattro cadaveri e la mia
scomparsa.
Io ero sempre legata a quelle manette. Il colonnello mi violentava più volte ogni giorno,
mi dava razioni di cibo in scatola e acqua da bere. Speravo solo di morire.
Un giorno d'inverno un cacciatore trovò il corpo del signor Marino in
un boschetto. Era completamente nudo e quasi scheletrito. Aveva una pallottola in testa,
sembrava un'esecuzione. La polizia riuscì in breve tempo a risolvere almeno quel giallo:
Marino aveva ucciso tre donne oltre a sua moglie e un parente di una delle vittime lo
aveva giustiziato. Caso chiuso.
Rimaneva aperto il mio. Papà non era più riuscito a dormire dal giorno della mia
scomparsa mentre mamma non era più riuscita a smettere di piangere. Avevano fatto
stampare migliaia di volantini con la mia foto, li avevano appesi ovunque e anche la
televisione spesso parlava di questa tragedia. Mio padre non voleva più saperne di
giornalisti che parlavano solo di omicidio ormai.
Poco prima di Natale la mia via era totalmente buia. Nessuno aveva
acceso le luci dell'albero, tutti mi ricordavano ancora e pregavano per il mio ritorno.
La signora Magda faceva ogni anno il suo solito giro per tutte le case e bussò anche a
quella del colonnello. Io cercai di gridare, di muovermi e spaccai il vetro della finestra
con il piede. Lui scese dalle scale e mi assestò un pugno allo stomaco sussurrandomi
all'orecchio che tra non molto mi sarei divertita per l'ultima volta.
Poco dopo arrivarono due auto della polizia. Magda si era insospettita dalla rottura del
vetro e dalle spiegazioni del colonnello: "Sarà caduto qualcosa in cantina!"
In quel momento lui stava ancora per violentarmi ma si tirò su i pantaloni
frettolosamente imprecando.
Non avevo più paura, sapevo che non sarei uscita viva da quella cantina umida.
Lo vidi prendere la pistola mentre un poliziotto intimava di aprire la porta o l'avrebbero
sfondata.
Il colonnello un tempo così dolce e carino si era trasformato nel mio assassino mentre
quella povera famiglia Graves aveva spedito fiori e condoglianze ai miei genitori prima di
trasferirsi di nuovo chissà dove. Guardavo quell'uomo negli occhi che avevo sognato
chissà quante notti e lo sentii dire:
"So che ti è piaciuto ma ora è finita. Ce ne andremo assieme."
Mi puntò la pistola sul cuore, mi baciò e sentii lo sparo. I miei occhi erano inondati
di lacrime mentre il colonnello cadeva a terra come un sacco pieno. Quel poliziotto mi
aveva salvata. O forse condannata a ricordare per sempre.
Il mio nome è Lisa ma mi chiamano Liz. Sono nata a Bassano del Grappa in provincia di Vicenza il 10-5-1977. Ho frequentato l'istituto magistrale e tuttora sono all'università di Padova iscritta a psicologia. Adoro scrivere ma non ho mai pubblicato nulla. Leggo molto Patricia Cornwell e i tutti i thriller psicologici.