Le urla e
le grida, i silenzi e le attese. Odio tutto di questo ospedale che puzza già da obitorio.
Ma io ci sono venuto per una semplicissima, banalissima, fottutissima ernia del disco. Mi
sono ritrovato in camera con un mentecatto a cui hanno aperto il cranio senza trovare
nulla. Mi sono ritrovato in sala d'attesa con un vecchio bavoso che invocava Dio senza
conoscerne l'indirizzo. Mi ritrovo in sala operatoria con una ventenne siciliana che
frigna senza averne motivo, solo perchè è improvvisamente diventata cieca.
Le luci giallo vomito della sala operatoria mi fanno venire sonno ancor prima che
l'infermiera filippina mi infili l'ago con l'anestetico.
Fa un freddo cane in questa sala operatoria. Ho bisogno di sbrinarmi il cervello. Penso
che anche negli obitori deve fare così freddo, forse per il principio della conservazione
della carne.
"Avanti il prossimo!", sussurra il chirurgo, appena uscito dalla sala operatoria
adiacente, con il camice verde tutto inzaccherato di verde, come se avesse schiacchiato un
esercito di repellenti cimici puzzolenti. Il prossimo sono io.
L'infermiera filippina mi dice che il chirurgo si chiama dottor Mortini e che è
bravissimo. Spinge la mia lettiga sotto un paio di lampade dotate di una fioca luce. Poi
mi blocca i polsi e le caviglie con appositi fermagli metallici. E, con un sorriso, mi
sussurra che c'è un piccolo problema, che hanno finito il bottiglione dell'anestetico e
che quindi mi avrebbero operato così, da sveglio. Sorride sempre, la filippina.
Io mi sento una cavia umana. Provo a liberarmi. Niente da fare. Non riesco nemmeno ad
urlare, sono come paralizzato dal terrore.
Arriva il dottor Mortini. "Qual è la gamba che le fa male?", mi chiede. La
risposta non gli interessa. Prende il bisturi in una mano e la motosega nell'altra. Sembra
tremare di paura. Io chiudo gli occhi. "Stia tranquillo", dice l'infermiera
filippina, "non si preoccupi, questo è un intervento semplicissimo...".
Ma non lo stava dicendo a me. Lo stava dicendo al chirurgo.