Era da poco
cominciata la gigantesca mareggiata del 66.
E io cero.
Le prime onde si erano alzate imponenti, più o meno alle 15 e 25 come giganteschi
lumaconi pronti a divorarci. Noi surfisti avevamo salutato la cosa con grida così alte da
cancellare il fruscio del mare in tempesta, avevamo alzato le nostre tavole come scudi e
come antichi guerrieri ci eravamo lanciati verso la nostra battaglia.
Ancora non sapevamo che, tutti i nostri sogni di gioia e divertimento, stavano per volare
giù per il cesso
E non solo i sogni
Dopo quella che era stato chiamata lebollizione triste, molte cose erano cambiate. Personalmente, avevo preso abbastanza bene la cosa. Me ne ero fatto una ragione. Mi ero trovato un lavoro, mi ero costruito una casetta e mi ero fatto degli amici.
Avevo lavorato come un matto ed era ancora lontano il momento in cui
sarei tornato a fare quello che dovevo fare. Quindi avevo deciso di regalarmi una vacanza
in grado di rigenerarmi. Un amico mi aveva detto che avrebbero organizzato una mareggiata
allIsola di Velluto. O meglio, come aveva detto lui, non una mareggiata qualsiasi,
ma la più grande mareggiata della storia. Lavevano chiamata la mareggiata del
66.
Beh, non avevo programmi migliori e come vi ho detto, il surf era il mio sport preferito.
Per questo decisi di andare.
Ero saltato in macchina, una Ford decappottabile del 23 come un canguro sul ring e, in un
attimo, avevo portato la vecchia carretta a 200 miglia orarie. La strada tagliava la
spiaggia come una ferita e io lavevo percorsa come se fossi stato lago di
sutura. Una curva a destra, una a sinistra, così, per non annoiarmi troppo.
Certo, avrei potuto spingere la mia auto ad almeno 300 miglia. Ma ero in vacanza e non
avevo nessuna fretta. Del resto non ho mai amato la velocità.
Il traffico era aumentato, fino a divenire intensissimo proprio allimboccatura della
strada che portava allisola.
Centinaia di macchine e di surfisti esaltati e ubriachi, si preparavano ad avere la loro
mareggiata.
La fila di macchine che si arrampicava fino alla cima della collina, per poi scomparire
nella vallata che portava al mare, sembrava uno di quei giganteschi millepiedi del
deserto, ed io ne facevo parte. Donne, vecchi e bambini gridavano e salutavano felici, a
bordo dei pick-up carichi di tavole e imperativamente guidati da un surfer muscoloso.
Evidentemente nessuno voleva perdersi quello spettacolo e poi, le mareggiate, erano più o
meno un modo per far vedere il mare ai bambini delle colonie.
Più o meno.
Dopo ore di fila, esposto allaria secca di tarda mattina,
sembravo invecchiato di mille anni. La calotta di cielo sopra di me era così azzurra da
raggiungere le tonalità dellargento e ricordava gli occhi di una svedese appena
uscita dalla doccia. La temperatura invece ricordava lalito di un messicano dopo un
indigestione di chili. Roba da scaldare linferno.
Ero comunque riuscito a portare la vecchia carretta in cima alla collina e mi
stavo preparando a vedere finalmente il mare.
Uscì dalla fila e fermai la macchina in uno spiazzo laterale.
I surfisti alle mie spalle non presero troppo bene la manovra e cominciarono a
strombazzare come se fossero stati ad un matrimonio. Qualcuno mi tirò anche un secchiello
e relativa paletta. Forse un bambino. In ogni caso, bambino o no, risposi con il medio
alzato e mi arrampicai fino al punto più alto del promontorio. Mi misi seduto come un
vecchio capo indiano che cerca di parlare con gli spiriti, mentre il grosso millepiedi di
auto, continuava stancamente il suo sinuoso movimento.
E, finalmente, lo vidi.
Il mare.
Un blu cobalto quasi accecante, fatto delle migliori stoffe in circolazione, si estendeva
per miglia e miglia fino a confondersi con lorizzonte.
La parte che si univa con la sabbia era fatta di velluto a coste alte, bellissimo e
morbido. Era un blu leggero, quasi azzurro che rispecchiava in pieno il colore che era
andato di moda lanno prima. Poi, cucito al velluto, circa a 200 metri dalla
spiaggia, il colore diventava più intenso e sgargiante. Era sicuramente cashmere. Nessun
dubbio su questo.
E poi lino, cotone, e perfino jeans, cucito sulle zone vicino alla scogliera.
Gesù, sembrava vero.
Un immenso mare di stoffa come non ne vedevo da anni.
Lorganizzazione non aveva certo badato a spese.
Restai qualche secondo a guardare il panorama e mi vennero in mente un mucchio di cose.
Cose nostalgiche.
Ma non era quello il momento di pensare al passato.
Scesi di corsa dal promontorio e saltai di nuovo sulla mia Ford del 23.
-In marcia vecchio mio- mi dissi- si va al mare.
Fortunatamente, mi fecero rientrare nella fila senza tante storie e, in breve, arrivai
alla fine della spiaggia.
Centinaia di surfisti erano già in posizione, in attesa che lorganizzazione
accendesse i ventilatori e cominciasse a dare movimento a tutta quella stoffa. Io presi la
mia tavola e mi unii a loro. Come dicevo, le onde non si fecero attendere. Un
altoparlante, con una voce che veniva da chissà dove, ne comunicò larrivo...
Volevamo le onde.
E onde furono.
I surfisti saltarono sulla stoffa, come pidocchi su un cane peloso. Le
donne e bambini si lasciarono andare a grida di incoraggiamento, mentre i vecchi si
persero nei loro ricordi.
Presi la rincorsa e mi buttai anche io, portando nel salto, la tavola sotto di me.
Atterrai in uno splendido pezzo di velluto appena, appena rigato.
Fu entusiasmante.
Poi, dopo essermi rotolato un po, come un maiale sulla merda, mi rimisi in piedi e
cominciai a camminare, verso quelle splendide onde di cashmere, che i ventilatori
sotterranei sollevavano come giganteschi paracaduti. Alcuni surfisti stavano gia
cavalcando londa, in perfetto equilibrio e sostenuti dallaria che veniva dal
basso. Alcuni riuscivano a restare in cima anche per alcuni minuti, altri, cadevano
rotolando giù per il tessuto.
-Principianti- pensai.
Aspettai che londa si gonfiasse sotto di me, e mi feci sollevare, tenendo le
ginocchia piegate sulla tavola e le mani agganciate sotto di essa.
Appena londa ebbe raggiunto la sua massima estensione, lasciai andare le mani e mi
alzai in piedi sulla tavola, in perfetto equilibrio. Allargai le braccia come se, da un
istante allaltro, avessi potuto spiccare il volo. Sembravo il Gesù di Rio De
Janeiro.
Ero il migliore.
Mi lasciai poi scivolare lentamente verso il basso, cavalcando quella distesa blu, sicuro
di me stesso come solo sul surf riuscivo ad esserlo.
Arrivai alla cucitura di velluto.
E fu in quel momento che accadde.
Una gigantesca onda, alta almeno venti metri, si squarciò improvvisamente, proprio mentre
un centinaio di surfisti la stavano cavalcano. La stoffa si afflosciò in un attimo, senza
nessun preavviso, lo squarcio si propagò come un onda sismica, e lo strappo divenne in
breve, un immenso pozzo nero come lo Stige.
Per un attimo pensai ad un idiota ubriaco che si fosse scordato di togliersi un anello o
un braccialetto tagliente.
Del resto sono un fottuto ottimista.
Crocifiggetemi pure.
Comunque qualsiasi sia stato il motivo, accadde.
Non ho idea di quanti surfisti ci caddero dentro allistante e quanti, invece, ci
scivolarono lentamente, non più in grado ormai di controllare la tavola. Cinquanta?
Cento? O di più? Non credo sia più molto importante... adesso.
Rimasi per un attimo in piedi, con la bocca spalancata come una grotta per mosche, ad
osservare quella catastrofe tanto imponente quanto improvvisa.
Le urla di disperazione mi riportarono alla realtà. Vidi gli spettatori precipitarsi
verso il velluto a coste alte, come se qualcuno avesse improvvisamente dato il via ad una
maratona cittadina.
Sapevo che era una corsa inutile, una cosa istintiva. In realtà non si poteva fare nulla.
Sollevai la tavola e cominciai ad incamminarmi velocemente verso la riva.
Adesso era un guaio, ma entro breve sarebbe stato anche peggio.
Quando misi piede sulla sabbia, la gente stava ancora correndo verso il mare di stoffa.
Pianti e strilli si sentivano un po dappertutto. Alcuni avevano le mani sui capelli
e sembravano pelati cui il vento sta per portar via il parrucchino.
Gettai la tavola a terra e, come una macchina in contromano, cercai di evitare tutta
quella massa di gente che correva.
Mi arrampicai piano sul promontorio. Mi sentivo stanco e abbattuto e mi sembrava di non
poter fare a meno di guardare quellorribile spettacolo, esattamente come prima avevo
fatto con il mare.
Arrivai in cima e mi misi a sedere.
Lo strappo era gigantesco e, le creature del deserto, arrivarono immediatamente,
probabilmente attratte dallodore del sangue.
Alcuni tentacoli uscirono da quel pozzo come stelle filanti e cercarono, alla cieca, di
catturare i surfisti che ancora non erano caduti nel buco.
Quelli che venivano stretti in quelle spaventose spirali, sembravano tubetti di
dentifricio nelle mani di un bambino dispettoso. Schizzavano sangue in tutte le direzioni
e i bordi di cashmere si colorarono in breve, di un inquietante rosso acceso.
Alcuni gridarono, altri si misero a piangere o almeno così si poteva pensare, perchè un
terrificante Gnam Gnam forte come un tuono, copriva ogni rumore.
Improvvisamente, una specie di imbuto uscì dal profondo buio sotto lo strappo. I
tentacoli iniziarono a gettarci dentro corpi umani e la creatura cominciò a succhiarli
come se fossero stati molluschi cucinati. Spruzzi di sangue soffiarono fuori
dallimbuto, rendendolo simile ad un impalcatura di un pozzo di petrolio.
Alcuni occhi gialli e lattiginosi vennero alla superificie, mostrando una parte della
testa viscida e molle di una creatura. I tentacoli continuarono a scempiare i corpi mentre
i bordi dello strappo si ripiegarono su se stessi come se le creature avessero
improvvisamente deciso di uscire dallabisso per divorare i superstiti. Alcune masse
lattiginose e costellate di bocche mostruosamente dentate si sollevarono sopra la stoffa.
Quelli che dalla spiaggia si erano precipitati nel mare di tessuto, si misero a gridare
ancora più forte e, come se fosse stato un gioco idiota, invertirono subito la marcia e
tornarono verso la riva.
La grande mareggiata del 66.
Merda.
Continuai a guardare per un po quellorribile spettacolo.
La stoffa continuò a gonfiarsi ancora per un po poi, quasi improvvisamente, i
tentacoli comiciarono a rientrare verso lo strappo, gli occhi delle creature scomparvero e
le masse lattiginose sprofondarono nuovamente. Una specie di tuono gigante, ma forse
dovrei dire un rutto, fece alzare una lieve brezza, dal mare alla spiaggia. Una lieve
brezza di morte.
Rimasi lì, fino a quando le creature del deserto non scomparvero definitivamente.
In breve tempo esattamente come erano arrivate.
Sulla stoffa squarciata, il sangue si mescolò alle grida, agli arti smembrati e
allinconfondibile atmosfera che la morte riesce così bene a creare.
Mi venne da piangere e pensai a quando sarei riuscito a tornare a casa.
A quando tutti saremmo riusciti a tornare a casa.
Cazzo
quanto mi manca la Terra.