Perchè
sono tornato qui?
Lo so è un luogo comune, si dice che l'assassino ritorni sempre sul luogo del delitto, ma
per quale motivo? Forse per assicurarsi che, nonostante l'accaduto, tutto appaia sotto la
tranquillizzante luce della normalità o per un inconscio desiderio di farsi scoprire?
Magari per provare il brivido di potere passeggiare sulla superficie che nasconde, poco
più sotto, il cadavere di chi si è ucciso.
Non lo saprei dire.
Comunque sia mi trovo ancora in questa vecchia casa diroccata, avvolta nella penombra
quasi da chiesa che la pervade; il posto dove l'ho ucciso, e dove l'ho nascosto.
Ci conoscevamo da sempre, si può dire e parlo di una di quelle amicizie che avevano
resistito a tutto, ma proprio a tutto. Credo che in fondo sia stato giusto così, se
qualcuno doveva porre fine alla sua esistenza, la persona più adatta a farlo ero proprio
io. Solo io e nessun altro.
Per quale motivo? Chiedete.
Detto così può sembrare banale. Sì avete indovinato, a causa di una donna, ma non una
uguale a tante altre, altrimenti ce la saremmo divisa come abbiamo sempre fatto. Marina si
chiama. Un nome semplice che a pronunciarlo riporta alla mente le basse dune di questo
litorale sabbioso, il nome di una donna come, ne sono certo, mai ne avete conosciute di
eguali. Bella certo, anzi splendida, ma con un qualche cosa in più dentro di sè che la
rendeva una creatura quasi da sogno. Inconcepibile spartirla e non c'era altra
possibilità visto che anche lui la desiderava.
È accaduto in questa casa abbandonata, nei pressi del fiume, vicino al luogo dove sfocia
nel mare. L'inconfondibile dimora coi muri rossi intrisi di salsedine, capaci ancora di
incendiarsi di un rosso cupo e violento quando il sole al tramonto filtra fra i salici che
la circondano. Un tempo, quando eravamo bambini, era il nostro luogo di giochi preferito.
Qui andavamo a caccia di fantasmi vagando, dolcemente terrorizzati, nella penombra delle
stanze fredde e vuote. Fermi sulla soglia della scala in pietra grigia osservavamo i
gradini gonfi d'umidità precipitare e scomparire in quella sorta di pozza oscura che era
l'accesso al seminterrato. Trattenevamo il fiato, poi, prendendoci per mano, iniziavamo la
lenta discesa. Loro erano laggiù e ci aspettavano. Sapevamo, nelle nostre fantasie
infantili, che gli spiriti amavano rintanarsi in quel luogo sotterraneo e che di sicuro,
nell'angolo più buio, dove giaceva accatastata una pila di vecchie tegole ricoperte di
muschio viscido e verdastro, ci avrebbero teso un agguato.
Quanto tempo è passato da quei giorni.
Tutto sembra uguale a come era allora in questa casa, la cui rovina procede lenta, ma
inesorabile, e un anno o dieci che siano trascorsi non cambiano che in maniera
impercettibile la sua gotica atmosfera.
Avanzo di qualche passo in direzione del camino. È qui che l'ho ucciso, proprio qui
davanti, si vede ancora la macchia scura del suo sangue rappreso e assorbito dal
pavimento. È stato sufficiente un solo colpo della trentotto che avevo nascosto in tasca,
a così breve distanza non potevo sbagliare. Non ha fatto una faccia sorpresa, quasi come
si aspettasse una fine simile e, per un istante, mi ha sfiorato il sospetto che fosse
venuto all'appuntamento animato dalla mia medesima follia omicida. Non gli ho frugato
nelle tasche e quindi non so se avesse avuto con sè un'arma da fuoco. Ho rispetto per i
morti. Gli ho solo chiuso gli occhi così come si deve e, mentre trascinavo il suo corpo
verso l'ultimo giaciglio, ho mormorato una preghiera per lui.
Poi ho pensato allo scantinato. Ho pensato che quella coltre di tegole potesse essere un
nascondiglio perfetto, ma adesso l'ingresso da cui si accede alla scala che porta lì
sotto è come sempre avvolto nella penombra e io non ho il coraggio di scendere a
controllare che tutto sia come l'ho lasciato
Improvviso, quasi lacerante in quel silenzio irreale, il motore di
un'automobile. Un suono ben noto e inconfondibile, che sembra proprio essere quello della
sua macchina, ma è impossibile naturalmente.
Mi avvicino ad una finestra e da una fessura fra le imposte sconnesse scorgo il BMW nero
traspirare le ultime gocce di gasolio combusto e arrestarsi davanti alla casa. Leggendo la
targa provo l'assurda sensazione che il cuore perda un colpo e poi si fermi. È lui che
scende. Sorride dicendo qualche cosa a Marina seduta sul sedile accanto a quello di guida
ed è, il suo, un sorriso pieno di vita.
Barcollo e mi appoggio al muro. Lui è morto e Marina, lo ricordo bene, a casa ad
aspettarmi
Sento nella mente una vertigine infinita, un pensiero che cerca di venire alla luce da un
abisso di tenebra nel quale giace immemore.
Poi la porta si spalanca. Lui entra.
"E adesso?" mi chiedo.
Si guarda attorno con espressione circospetta. È teso, quasi spaventato. Fa finta di non
vedermi, come se non esistessi neppure.
"A quale gioco sta giocando?"
Lo chiamo, ma non reagisce, nemmeno un sussulto. Ha sempre posseduto, e io glielo
invidiavo, un sangue freddo eccezionale. Mi muovo verso di lui e cerco di afferrarlo, ma
le mie braccia stringono il vuoto. Avanzo ancora e il mio corpo attraversa il suo
fluttuando fra un groviglio di organi interni senza incontrare alcuna resistenza. Mi
colpisce la repellente nudità di quegli apparati altrimenti occultati sotto la pelle, il
loro pulsare sincrono con i battiti del cuore mi appare rivoltante, disgustoso. È solo un
attimo, poi sono dall'altra parte, stordito e sconvolto da quello che sta accadendo.
Mi giro di scatto e urlo il suo nome.
Ma lui non mi sente, anzi non sembra accorgersi minimamente della mia presenza. Grido
ancora, più forte e le pareti sembrano rimbombare di infinite eco che rifrangono quel
nome che, in un'epoca remota, era appartenuto ad un arcangelo; ma adesso il suo volto è
così contratto e duro da ricordare, invece, quello di un angelo sterminatore.
Questa volta alza il viso, come se avesse udito un suono a malapena intelligibile
provenire da chissà quanto lontano, poi scuote il capo e prosegue convinto che tutto sia
frutto della sua immaginazione.
Ora è davanti al camino e osserva la macchia di sangue sul pavimento. Con raccapriccio mi
accorgo che si dirige verso le scale che conducono allo scantinato. Esita un istante come
per prendere coraggio e rivedo ancora me e lui, due bambini ritti sulla soglia che conduce
all'orrore.
Ma è da solo adesso.
Il mio corpo è scosso da tremiti convulsi e non sono neanche più in grado di parlare.
Rimango più indietro e lo seguo a distanza nella discesa. Una volta giunto al livello del
sottosuolo si dirige senza indecisioni nella stanza dove l'avevo sepolto (dove credevo di
averlo fatto.).
Il tumulo è sempre lì, apparentemente intatto, e io sono sconvolto al pensiero di quello
che potrebbe esserci sotto.
Toglie le tegole ad una ad una, con gesti misurati, delicatamente fino a scoprire il mio
corpo che si rivela, fra i coppi ricoperti di muschio, come un cadavere incrostato di
alghe e appena affiorato da un abisso marino. Il volto appare sereno. Gli occhi chiusi, le
mani ben composte e incrociate sul petto.
Gli sono grato di queste attenzioni, ma non vedo alcun foro di proiettile, almeno sul
davanti
"Mi hai colpito alla schiena, vigliacco!" mi viene spontaneo esclamare senza che
lui, comunque, senta alcunchè.
"Non c'era altra scelta, lo sai anche tu."
Dice mentre una lacrima gli riga una guancia.
"Avevi pensato la stessa identica cosa, ti ho trovato una pistola nelle
tasche e so che l'avresti usata se non ti avessi preceduto, si trattava di me o di
te!"
Comincia a ricoprire il mio corpo con le tegole e quando ha finito esclama in un soffio: "Riposa
in pace, qui non ti disturberà nessuno, io non posso fare altro. Ora mi aspettano e devo
andare."
"Addio!" dice volgendosi un'ultima volta.
Si gira e risale la scala avviandosi verso l'uscita dove Marina, ignara di tutto, lo
aspetta in macchina.
Non cerco più di fermarlo, non riuscirei a nulla. Lo seguo come un'ombra, ma in fondo non
è quello che in realtà ora sono?
Lo vedo aprire lo sportello dell'auto e Marina protendersi verso di lui e baciarlo
sorridente. E allora un impeto di rabbia mi lacera dal profondo. Cerco di uscire, ma la
casa è come una prigione insormontabile le cui pareti respingono ogni tentativo di
varcarne i confini.
Il motore viene acceso e l'automobile si avvia con un leggero rombo.
Partono, vanno via per sempre, mentre io rimango qui fra le decrepite mura di questa casa
morta e abbandonata. Cadavere fra cadaveri di muri fatiscenti, fantasma tra i fantasmi
delle presenze che una volta l'abitavano.
Talvolta può accadere.
Avevo sentito raccontarlo, o forse lo avevo letto. La morte violenta e rapida, troppo
rapida, ha reso in qualche modo la mia anima prigioniera di questa casa per una eternità
di solitudine e di tenebra.
Sono come un "Jack in the box" chiuso nella sua scatola di cartone fino
a quando un incauto visitatore ne solleverà il coperchio. Un pupazzo a molla pronto a
scattare e a ghignare isterico. Voi che passerete di qui state alla larga da questa
dimora, perchè di notte io gemerò di rabbia e di dolore, tenetevi lontano da questo
spirito reso pazzo dalla morte, perchè io vi farò paura!
Qualcosa si muove.
Qualcosa o qualcuno che viene su dalle scale mentre io aspetto indifferente a tutto.
Appaiono uno ad uno, lentamente, con la calma di chi abbia secoli davanti a sè. I loro
corpi traslucidi fanno capolino dalla soglia del seminterrato.
Spettri, gli spettri che infestano questa casa, quelli che non ero mai riuscito a vedere,
quelli che per noi erano solo una fantasia di bambini. Mi osservano curiosi, quasi stupiti
mentre sembrano esclamare:
"Guardate!
Il nostro vecchio compagno di giochi!"
N.d.A.
Jack in the box: Nei paesi anglosassoni viene così chiamato quel pupazzo
costituito da una testa fissata ad una molla e contenuto in una scatola a forma di cubo.
Aprendo il coperchio, il pupazzo schizza fuori e ondeggia mostrando il sorriso disegnato
sul volto, sorriso che a volte sembra davvero un ghigno isterico e feroce.