Il dottor
Stracchi tenne il tumore sollevato a mezz'aria, quindi lo avvicinò al mio volto per
mostrarmelo meglio. «E uno!» esultò.
Guardai quel che pareva un grumo di sangue, rossa materia mucillaginosa raccoltasi intorno
a un corpo calloso. Il tumore sembrava essere dotato di appendici di varia forma e
lunghezza. Ebbi l'impressione che, dal suo giaciglio (formato dalle mani guantate del
professore), stesse a ghignarmi tendendo minacciosamente i suoi tentacoli.
Intuii che anche il dottor Stracchi, sotto la mascherina verde, ghignava. Evidentemente
era soddisfatto di sé, e la cosa non poteva che rallegrarmi. "È palese" pensai
rasserenato, "che il vecchio volpone sa il fatto suo."
Il dottor Stracchi lanciò il tumore su un vassoietto bianco. Udii il cupo pflush! che il
polipo fece nell'atterrare sulla sterile superficie di plastica. Gli assistenti risero
come a uno scherzo ben riuscito. Nella sala operatoria l'atmosfera era rilassata.
«Passiamo all'altro», annunciò l'insigne chirurgo, sfregandosi, chissà perché, le
mani ricoperte dai guanti insanguinati. Diede una sbirciatina ai diversi monitor, annuì
con un mezzo grugnito, quindi spostò la sua attenzione verso il piccolo televisore
installato in una nicchia nel muro.
Sui maggiori programmi nazionali stavano trasmettendo i risultati delle elezioni
parlamentari. Il volume era basso, ma io potevo ugualmente sentire la voce
dell'annunciatore che snocciolava le statistiche dello spoglio.
«Pare che la sinistra sia in forte vantaggio», osservò senza particolare entusiasmo una
giovane dottoressa che, come chiunque sapeva, era l'amante del luminare.
«Già», confermò Stracchi, brusco. E, sempre fissando lo schermo televisivo, aggiunse:
«Lei sta bene, vero?»
Capii che si rivolgeva a me. «Sì», risposi.
Ed era vero. A parte il lieve senso di raccapriccio che mi aveva causato la visione del
primo dei due tumori recentemente riscontratimi (quello che mi si era formato su un lato
del cuore, attaccato a un polmone), stavo niente male. Negli ultimi tempi la scienza
anestetica aveva compiuto passi da gigante: potevo avvertire tutti e quattro gli arti,
muoverli addirittura, e i pensieri erano lucidi; soltanto il tronco era (giocoforza)
narcotizzato.
«Bisturi», ordinò il dottor Stracchi, distogliendo finalmente la sua attenzione dalla
tivù. Gli cacciarono in mano una specie di matita: un bisturi al laser. Udii lo sfregolio
che l'arnese provocò sulla mia carne e di lì a poco annusai odore di bruciaticcio.
«Dunque i Rossi ce l'hanno fatta, infine...» borbottò poco contento il luminare, mentre
lavorava sul mio corpo con ammirevole sicurezza. Quasi a confermare le sue parole, dal
televisore giunsero i dati finali del conteggio: tutti i partiti di sinistra avevano
ottenuto la stragrande maggioranza dei voti. Un avvenimento a dir poco portentoso, quasi
un sogno per me. Mi lasciai sfuggire un'esclamazione di gioia.
«Già, già», fece il prof, alzando le sopracciglia. «E anche lei se ne rallegra,
naturalmente. Eh, Carella?»
Il suo assistente di nome Carella, che fino a quel momento aveva trattenuto un risolino,
ingurgitò rumorosamente. «Perché dovrei?» domandò precipitosamente, facendo lo
gnorri. «Io sono centrista...» specificò con un groppo in gola.
Finanche io capii che mentiva. Il giovanotto temeva ovviamente di perdere il posto; forse
l'aveva già perso.
«Che meraviglia, eh?» mi interpellò improvvisamente il dottor Stracchi, mentre le sue
braccia continuavano a mulinare all'altezza del mio busto. Ma non mi diede il tempo di
replicare. «Ma sì», rispose lui stesso per me. «Dalla sua espressione si vede, eccome,
che è arcicontento! D'altronde, da quale parte lei stia è un segreto di Pulcinella:
tutti quanti abbiamo letto almeno uno dei suoi romanzi a sfondo sociale. Per tacere degli
articoli che ha scritto per Sole Sorgente e per quegli altri fogli sinistrorsi.» Scosse
la testa in segno di biasimo. «Ma non si preoccupi: non gliene vogliamo per questo.» Si
chinò ancor più su di me. «È contento, eh, della svolta politica? Oggi», soggiunse,
rivolgendomi una breve occhiata furba, «per lei è una data doppiamente importante: il
suo partito vince e lei viene liberato per sempre da questi due...» Inghiottì saliva,
interrompendosi di colpo. «Da questi due...» ripeté con voce perplessa. Dopo un
silenzio che a me parve interminabile, borbottò: «Oops!»
Nell'angolo estremo del mio campo visivo notai un'infermiera sgranare gli occhi, e vidi il
giovane Carella gonfiare le gote, sopraffatto da violenti conati.
«Che c'è? Che succede ?» inquisii.
Il chirurgo mi squadrò per un lungo secondo prima di tornare a rivolgersi ai suoi
collaboratori. «Non era qui, a sinistra? Ah, avevamo già operato? Dovevamo togliere il
tumore di destra?» Si precipitò verso gli strumenti, che continuavano a sputare dati ed
emettevano i consueti beep-beep, pur se con meno vivacità di prima. Sollevò alcune
lastre e le guardò in controluce. «Quale destra? La sua o la nostra?»
«Insomma, che c'è?» gridai rauco.
«È ancora vivo...» constatò con tono incredulo uno degli assistenti, mentre io
osservavo Carella che si piegava in due ai piedi del tavolo operatorio mettendosi a
vomitare copiosamente.
«Credevo che l'altro fosse a sinistra... ma qua avevamo già operato. Uhm, già.»
«L'elettrocardiogramma non manda più segnali!» esclamò un'infermiera, battendo con le
dita sull'apparecchiatura.
«Il polso è fermo», informò un'altra voce fuori campo, con irritante calma
professionale.
«Cosa diavolo...» sbraitai. Cominciava a mancarmi il fiato.
Con mio grande stupore, il professore si tolse la mascherina. Ma non era vietato, col
paziente ancora aperto?
«Sinistra, destra...» disse, grattandosi la testa. «Abbiamo fatto una bella confusione.
Colpa della tivù. Spegnetela!» urlò. E, di nuovo a me: «Mi spiace. Creda, non l'ho
fatto apposta.»
«Vuol forse chiarirmi...?»
«Beh, il secondo tumore in realtà si trova dall'altra parte. Io invece...» Seguì una
breve pausa. Poi aggiunse, mentre sulla fronte gli si stampava un grosso punto
interrogativo: «Allora che cavolo ho tagliato?»
Tutti quanti, me compreso, sbarrarono gli occhi, mentre il dottor Stracchi sollevava la
"cosa" pulsante, ancora stranamente viva, che mi aveva erroneamente estratto dal
petto. Dapprincipio non riuscii a capire di che cosa si trattasse. Dopo ne riconobbi
vagamente la forma, vidi le arterie e le vene che penzolavano come rametti flosci...
«Nooo!» urlai. «Possibile? Pezzo d'asino!» sbraitai. «Faccia di merda! Ma come si
può? Mi ha tolto il cuore!»
«Un bolscevico in meno», ribatté il professore, sempre tenendo tra le mani il mio
organo vitale e strizzandolo giocosamente.
Nel mio indicibile orrore riuscii a girare la testa su un lato, prima che la vista mi si
offuscasse tra fiotti color rosso porpora. L'ultimo particolare che misi a fuoco fu il
polipo maligno dentro la vaschetta di plastica: sembrava stare a ghignarmi, agitando un
tentacolo in segno di saluto: «Addio, compagno!»