Fuori
lestate era dappertutto. Quale miglior ausilio avrei mai potuto chiedere agli dèi.
Nellaria giacevano aliti venefici, un clima di maleodorante gonfiore.
Mentre sedevo davanti al caffè mincantai nella visione di un sacrificio: Isacco non
trovava alcun cervo, come legittimamente sarebbe dovuto accadere. Era estate e i cervi
pascolavano su vette ben più impervie di quelle che lui, il suo figlioletto e il suo
servo avrebbero mai potuto raggiungere. Quindi, alzati gli occhi al cielo, langelo
del signore gli fece intendere di non poter andar oltre a quanto stabilito nelle superne
sfere: o il cervo o il figliolo. Cercò per tre lunghi giorni, ma di cervi assolutamente
niente. Daltra parte dove lo vai a trovare un cervo nella torbida estate di
Palestina... E infine sarebbe dovuto accadere: con quellindolenza che così spesso
mostra chi possiede una corporatura poderosa, Isacco alzò il viso verso le volta celeste.
Nei suoi occhi lampeggiava lardita risolutezza del mortale che sfida gli dèi, e per
un istante le pupille specchiarono le nuvole e i cieli azzurri di agosto, insieme a
unalgida ripugnanza. Tornò indietro e sacrificò il figlio. Depose il suo corpo nel
cavo di un albero e se ne andò con in mano una scatola contenente il suo cuore. Non era
stato un sacrificio, fu un omicidio. Era andata così ne sono assolutamente certo.
Kirgegaard non possedeva un briciolo di numiscenza...
Che grandiosa risonanza a miei pensieri offriva la vista dalla mia cucina: oltre il grasso
dei vetri una peste tumescente celebrava la morte della primavera e la sua lenta
estensione verso la decomposizione, o meglio, lo sfinimento. La si poteva vedere, nella
sua scatola, la torva estate possedere il congegno della vita ancora intatto, ma già
stillandone con infantile malvagità la compiutezza. Insomma, anche, e soprattutto, grazie
a quanto avveniva nel mondo in quel momento, non era difficile seguire il mio proposito.
Non era difficile, ripeto. Si poteva fare. Sarebbe bastato sdraiarsi. La radio, per
giunta, mandava un brano di commemorazione funebre di Ravel intorno alle foglie dei
gerani, che immobili, simulavano la vita. Il tempo, da parte sua, quantunque inesorabile,
non scorreva, ma si trascinava in cubici blocchi appena strattonato dal movimento solo
interno dei secondi. Tutto era il più possibile fermo. E nella sua massima tensione, la
Vita si cristallizzava e nel tempo si fingeva. E così da sempre. Lestate è
la stagione delle scatole, delle maschere e degli adii.
Bastava girare la rondella, distendersi e buona notte. Allinizio sarebbe stato come
dormire e in effetti lesalazione del metano mi avrebbero fatto dormire prima di...
Ecco, avrei dormito.
Ma inaspettato, suonò il campanello. Avevo preventivamente staccato il telefono e
lanciato dalla finestra il cellulare. Chi cazzo è dico io che deve rompere le palle alla
gente alle due del pomeriggio di una giornata afosa come questa. Muovendomi con lentezza
da maschera giapponese piantai locchio nello spioncino. La mia vicina. Ma che
cazzo... La curiosità è ben più forte della morte. E così, incurante del mio lurido
aspetto, aprii e dissi:
Ciao. Scusami, stavo facendo dei lavoretti sotto la macchina a gas e così...
Non ti preoccupare. E che volevo chiederti se magari avevi una scala. Devo
staccare le tende del salone per pulirle e non so...
Devi staccare le tende del salone adesso? (Co starsura! Pensai) Senti se
te la porto verso le cinque, va bene lo stesso?
Be... se adesso non puoi, posso anna da quelli di sopra...
No, no, no... non è che non posso.... Ma lei assunse di botto una
circostanziata espressione dindifferenza (più che di delusione) per il mio voler
procrastinare il prestito. E così, di contro alla mia consueta gentile attenzione verso
il prossimo, eruppi con tono quasi sarcastico: ... Insomma, è che non me pja da
cerca la scala, tiralla fuori da chissà quale bastimento de roba, fa n cardo
assurdo, so le due. Guarda, te la porto io tra unoretta. E te le stacco io
quelle cazzo di tende. Vabbè?
....
Poi tornai in me... Scusami... è il caldo... senti...
Guarda, non ti preoccupa, veramente, vado sopra dai Giuliani, se poi loro non
me la danno, aspetto che tu me la porti. Famo così. Aveva subito approfittato del
mio pentimento, lasciando trasparire la sua natura di indolente troia di borgata.
Senti, vabè... aspetta qui. Te la vado a prendere.
Dai su, fai sto sforzo..., disse sembrando di essere carina. E allora
sbagliò tremendamente. Nello stato in cui ero (stavo pur sempre nel vivo della mia futura
morte...) non potei sopportare quellennesimo assestamento della sua emotività. In
preda completamente a me stesso, mi rivoltai la presi per un braccio e la spinsi dentro.
Aoh... ma che stai a fa... lasciamee.... Mi ingiunse insolente.
La colpii violentemente sulla testa. Rimase stordita.
Su, vieni. Dissi, riconciliante.
Dopo alcune altre percosse, quietai al quanto quel villano e cafone atteggiamento
recalcitrante. La legai alla sedia della cucina davanti alla peste sui vetri. Le dissi:
La vedi la peste la fuori?
Hurmf..., disse come non capisse la mia domanda. La ripetei, stavolta
sostenendo lenfasi interrogativa con un schiaffo. Ma niente. La terza volta rispose,
forse per impedirmi di strappargli quei cazzo di capelli mesciati da tarda coatta
ultratrentenne: No, ma che peste (piagnucolava). E una bella giornata.
E una bella giornata?... Sono quasi 40 gradi. Laria trasuda morte. Non
vedi la scatola dellestate? Il sacrificio della bellezza? La tomba ionica da
madre Terra? La vedi comè perfetta, un palpito in più e crolla...
Ma che vedo.... Frignava.
Mi guardava con le pupille negli angoli degli occhi. Era indubbio che stava quasi per
passare da una fase di terrore a quella di pauroso sospetto verso quella di odio, per
passare definitivamente alla fase di odio-indifferenza. Ne parlai francamente con lei. Le
dissi di come avesse la fortuna di poter vivere in ben poco tempo quello che di solito
accade in molti, lunghi anni.
Vedi, dalla fase di terrore, ovvero la nascita, la gente della nostra bella civiltà
impiega infatti dai dieci a venti-trenta anni prima di passare alla fase di
odio-indifferenza. E un paradigma per me assoluto Carla, secondo il quale non sono
valide tue eventuali confutazioni intorno al fatto che la gente, quasi tutta, non lo
dimostra. Questo è appunto semplicemente laspetto esogeno della patologia sociale
(Stavo piegando la mia espressione volontariamente a toni il più possibile esoterici per
quella cojona, saggiando leffetto di quelle parole sul suo volto...).
Lorganizzazione si nutre di schemi dalla sottilissima trama, secondo i quali non ci
è dato di palesa apertamente emozioni schiette, pure. Ma limitatamente a quanto
strettamente necessario all'orientamento concettuale, (ero in piedi del tutto posseduto
dallenfasi della mia arringa) gli uomini attingono ora ad un paradigma di
espressioni ora ad un altro. Prova un piccolo esperimento, prova ad anna da un
tabbacaio e chiedigli un pollo ben arrostito. Be nellespressione del
tabaccaio, se avrai saputo ben recitare la tua parte, riuscirai ad intravedere, anche se
solo per un secondo, la faccia del disorientamento, e con un po di allenamento
saprai riconoscervi gli occhi stessi della morte. Tutto, in questo macro-paradigma,
è compreso (nel pronunciare macro-paradigma, si smosse in me un non so che di
nauseante... corridoi universitari anni settanta... Fiat 131 bordò... sportelli del
Forlanini... fui portato a ricusare tutto... ma resistetti...). Proprio tutto, lascia
stare e ogni sua possibilità....
Tranne una. Le dissi preparandole un caffè.
Non capisci... si vede che non hai mai acquistato conigli nelle tabaccherie... ha,
ha, ha... Comunque, possiamo dire che adesso tu nutri per me un pauroso
sospetto? Possiamo dirlo?
Le diedi un guizzante e secco scappellotto in fronte e rispose:
Se..se..si..uhmrf..
Stai a sentire. Sai qual è lunica possibilità che ci è dato veramente
scegliere?. Niente, recalcitrante, peggio di un bimbo davanti al telegiornale.
Aspetta... Tu sarai una cattolica? Dai... fai uno di sforzo... la religione di cui
fai parte. Le Sacre Scritture, cazzo! Quelle le avrai lette... Sì o no?.
Ho sete... , mugugnò. In effetti con quel caldo, tutte quelle percosse...
.Era troppo stordita per qualsiasi reazione.
Non la potevo più vedere. Quindi presi una busta e gliela misi in testa, reprimendo i
suoi rantoli di soffocamento con portentose gomitate in testa e sulla nuca. Non so se
morì soffocata o per le mazzate. Fatto sta che morì.
Comunque spostai la sedia con sopra la libera meretrice samaritana in un angolo della
cucina e tornai alle mie incombenze e alla mia propedeutica di morte.
Feci altre prove, sempre più lunghe (la radio mandò in ordine vario brani di Chopin,
Couperin, Dvorák, Fauré, Froberger). Lultima prova fu di ben quaranta minuti.
Dovetti spingere con vigore le palpebre in su. Il torpore aveva già cominciato a dominare
sulla coscienza. Altri cinque minuti e avrei preferito cedere al sonno piuttosto che
affrontare il disumano sforzo di destarmi. Credo fu la musica che mi svegliò. Il Concerto
di Varsavia per piano e orchestra, di Addinsel. Nellalzarmi mi meravigliai che,
a differenza mia, la samaritana non si fosse svegliata. Daltra parte, credo che il
nome di Addinsel non avrebbe potuto ricordarle che un qualche detersivo. Per me fu invece
un evento incredibile.
Ascoltai per la prima volta quel concerto un freddissimo pomeriggio dinverno. Ero
nel letto dei miei accanto a mio padre. Al buio completo (mio padre soffriva di una forte
depressione che lo portava a lunghissime reclusioni entro i confini del suo corpo),
ascoltavamo il bello e lungo primo movimento. Allacme di questo, mio padre irruppe
in solido tragico pianto. Come avrei voluto uscire, strapparmi da quellantro di
dolore o almeno alzare la serranda e lasciare che i rumori del mondo piegassero gli strali
di quei violini. Ma non mi mossi. Rimasi immobile lasciando che le vibrazioni di dolore di
mio padre mi squassassero lo spirito ormai tremante e schierato sulle mie costole, sui
miei zigomi, sulle punte delle dita, ovunque più fosse prossimo alluscita. Fuggiva
dal centro vitale, lasciando uno di quei tristi vuoti nella pancia, e un molle pene in
fiore tra le gambe. Una culla che una mano dondola nel vuoto di una tomba,
cantava Verlaine...
Così, quel pomeriggio dinverno, due contenitori di dolore risuonavano, vuoti,
cromatiche folate di pianoforte. Poi, dimprovviso, trasalii di quiete.
Ora, proprio quella musica di morte mi aveva riportato in vita. Proprio
quella musica che per prima stillò in me la quiete della fine, mi risvegliò dalla morte.
E mai possibile che una musica debba decidere della mia vita o della mia morte.
Guardai per un attimo la samaritana, provando un gelido fremito di solidarietà umana.
Allora le tolsi la busta dalla testa scoprendone una maschera sorprendentemente ancora
intatta, i lineamenti ancora composti in qualche infantile espressione. Tuttavia, le
labbra contorte e secche, denunciavano apertamente la natura umana di quella maschera
e ne dichiaravano lassenza, ovvero la morte.
Con un risentimento pari a quello che provai quellinverno nella stanza di mio padre,
mi diressi nella mia camera e spensi la radio. Ora ero pronto. Chiusi ogni porta, ogni
serranda e finestra, girai la rondella e pian piano, lasciando che i seni della samaritana
sfumassero lentamente tra le mie ciglia, mi addormentai...
Quando aprii gli occhi venni sopraffatto da un inaudito silenzio. Una totale oscurità. Il concerto di Varsavia, pensavo, era già finito?... sognavo?... Poi, improvvisamente realizzai che non riuscivo a respirare. Allarmato, cercai allora di alzarmi ma la testa mi sbatté violentemente, provocando un suono sordo. Provai ad alzare le ginocchia che quasi subito urtarono in qualcosa. Alzai il ventre, provai a distendere le braccia ad allungarmi. Ma ovunque non trovavo che pareti. Non vi erano dubbi, mi trovavo in una scatola, stranamente cinta senza eccessivi esuberi lungo i limiti del mio corpo. Realizzai. E di nuovo, Terrore! Mi trovavo in una bara! Peggio, nella mia bara! Cercai di urlare, ma non riuscivo a emettere che rauchi rantoli, che nellassenza pressoché totale di aria morivano quasi subito tra le mie labbra, contorte e secche. Nello spasmo denergia morente, presi a muovermi e agitarmi producendo percussivi tonfi insonori. Poi dimprovviso trasalii di quiete.
Linserviente dellobitorio che per primo rispose al mio lugubre tam-tam si chiamava Giovanni Troiani, del casilino.
Mi chiamo Maurizio Polsinelli, sono nato e vivo a Roma dove lavoro come insegnante e come organista. Ho 31 anni, non sono ancora sposato ma ho un bellissimo gatto.