"I cry when angels deserve to die"
I
L'orizzonte
grigio all'imbrunire risvegliava in me quel piacere d'avventura che mi aveva
caratterizzato fin da piccolo. Esplorare le montagne ghiacciate, i boschi innevati e le
immortali praterie verdi coperte da un soffice velluto di neve; girovagare solitario per i
burroni scoscesi o attraversare i fragili ponti di legno d'ebano scossi dai lieviti aliti
di vento. Nessun mondano avrebbe potuto provare quella gioia e quel timore di curiosità
che avvolge l'animo umano come lo provavo io, nessuno avrebbe potuto sentire quel brivido
d'avventura scorrere tra le dita, pronto a fuggire in ogni istante della nostra breve e
funesta vita.
Forse e per questo motivo che decisi proprio il giorno del Santo Natale di recarmi a
Skelleftea, una stupenda e gelida città della regione scandinava. Il mio istinto era in
cerca di nuove avventure e di nuove scoperte, non potevo restare nella mia afosa cittadina
italiana.
Skelleftea si trovava a pochi chilometri dal Polo Nord e nessun umano, eccetto uno sparuto
numero di immigrati svedesi che si insediarono lì per fuggire dal regime svedese, aveva
mai posto piede prima d'ora in quel territorio gelido ed isolato dal resto del mondo. La
morbosa curiosità di esplorare per primo quel magnifico paesaggio diventava sempre più
ossessiva man mano che mi avvicinavo alla meta. Lungo la salita gelata che porta a quel
piccolo paesino situato ai confini del cielo limpido e misteriosamente pesante, decisi di
procedere cautamente con la mia piccola vettura ormai corrosa dal tempo e dagli anni.
Avevo le mani fisse sul volante di pelle e riuscivo a controllare ogni curva stretta della
strada. Era da pazzi proseguire! Vicino al dirupo non vi erano protezioni adeguate e le
lastre di ghiaccio rendevano la "scalata" ancor più difficile. Ma io avevo
coraggio e così decisi di continuare. Non mancava molto all'arrivo, anzi, potevo già
osservare l'alto ghiacciaio trasparente dove sorgeva la roccaforte.
Ad un certo punto un suono profondo e fastidioso, come un cigolio di una porta
arrugginita, si impossessò della mia mente. Gli occhi si appannavano e la testa sembrava
non reggere il peso straordinariamente leggero dell'aria.
Accostai al bordo della stradina. Regnava in tutta la vallata un silenzio mortale e
inquietante. Chiusi gli occhi arrossati e vidi una luce dirompente che illuminava le
tenebre del mio pensiero. Una figura femminile avanzava lentamente. Tentavo di distinguere
il suo delicato viso ma il lungo vestito di seta d'oro la copriva rendendo la figura
indefinita e misteriosa. Ora si allontanava fino a ridursi ad un minuscolo puntino dorato.
Spalancai improvvisamente gli occhi e mi ritrovai all'ingresso di Skelleftea.
II
Come ero giunto lì ancora oggi non riesco proprio a spiegarmelo e
decisi allora di non pormi tante domande visto che la testa mi girava ancora e gli occhi
fiammeggiavano sempre di più. L'ascesa verso il paesetto era ripida e tortuosa, la mia
macchina aveva sopportato troppo a lungo questa sevizia e si rifiutava di proseguire.
Scesi dalla vettura che non dava segni di vita ed esaminai attentamente la situazione. La
salita verso la regione era già molto difficile, per non parlare del freddo che
immobilizzava le membra e gli arti. Questa protezione era solamente inopportuna ma facile
da scavalcare. Presi la mia pelle di orso dal cofano posteriore dell'auto. Poi estrassi
dal mantello un copricapo di lana e dei guanti. Vestito in quel modo non temevo il freddo
pungente e iniziai l'arrampicata.
L'impresa si dimostrò ben più difficile del previsto. Ad ogni passo scivolavo
rovinosamente verso il punto di partenza e maledicevo tutto ciò che potesse essere sacro.
Decisi di fare un ultimo sforzo. Mi trovavo ormai alla metà quando il piede iniziò a
perdere per l'ennesima volta contatto con il ghiaccio liscio. Mi aggrappai ad un ceppo di
legno che sporgeva dalla neve fresca e utilizzando tutta la mia forza riuscii ad andare
su.
Prima di incominciare la mia esplorazione diedi un'ultima occhiata al ceppo. Scostai la
neve e il terriccio che coprivano la restante parte legnosa. Sporgendomi alla flebile luce
notai le iniziali del paese "Sk" mentre il resto era completamente rovinato ed
enigmatico, potevo solamente sceverare una "f" e una "a". Accostai la
tavola di legno ad una roccia smussata e mi incamminai lentamente.
Il cielo era puro come una notte d'estate e nessuna nuvola sembrava presagire un
temporale. Entrai dalla via principale accostata da molte piccole casette abbandonate,
forse appartenute ad alcuni coloni. Le lanterne che un tempo ravvivavano le strade erano
per terra rotte, rifugio per vermi ed insetti. Mi ritrovai dopo pochi metri nella piazza
centrale dove, giudicando i tratti, un tempo sorgeva un grande monumento per qualche
condottiero. Dalla piazza si diramavano dei vicoli sempre più stretti e sempre più
caliginosi. Decisi di scrutarne uno che ridava su una piccola strada poco distante. Mentre
incedevo, rimuovendo con la mano ogni singola ragnatela, il mio respiro cominciò a farsi
sempre più pesante ed ansante. Il suono stridente entrò nelle mie orecchie e gli occhi
impotenti si chiusero alla sua volontà. Vidi a lungo la profonda oscurità ma nuovamente
mi apparse un bagliore di luce lucente e un aspetto femminile. Questa volta avanzava verso
di me più velocemente porgendo la sua mano. Tentai di avvicinarmi ma ogni volta potevo
sentire il suo lieve ridere. Provai in tutti i modi di raggiungerla e di fissarla meglio
ma si distanziava da me di continuo, sempre più lontano, fino ad essere avvolta dal
candido riflesso bianco. Ora potevo sentire il mio fiato, il suono si era dileguato.
Aprii cautamente gli occhi e vidi davanti a me una nebbia fitta. Il vento fischiava da
tutte le parti e la neve cadeva stancamente sul mio corpo. Mi trovavo al centro di una
burrasca. Tentai di visualizzare la forma di una casetta ma inutilmente. Brancolavo nel
buio più assoluto non sapevo dove dirigermi o che fare. Il freddo si impossessava del mio
corpo ed ero pronto ad abbandonare ogni speranza. Mi piegai su me stesso, come in una
trappola, e chiusi gli occhi. Il turbine impetuoso trascinò il mio corpo per una decina
di metri. Ora un vortice mi sollevò tanto da terra e quando ricaddi precipitai su una
sottile lastra di ghiaccio. Il peso del mio corpo la mandò in frantumi e caddi nell'acqua
ghiacciata. Sigillavo gli occhi sempre più forte. Potevo sentire il liquido invernale che
penetrava sotto il mio soprabito, che saliva fino al torace bloccandomi completamente.
Rivolsi i miei ultimi pensieri alla mia famiglia e ai miei amici ed ancora mi rimproveravo
di essere giunto in quel riprovevole luogo. Andavo giù, sempre più giù, nell'abisso
privo di luce, lontano dal mondo e da ogni forma vivente. Ad un certo punto sentii sotto
il mio corpo una piastra solida, ma no, era terreno, avevo forse toccato il fondale?
III
Mi feci coraggio e schiusi lentamente gli occhi. La pressione
dell'acqua, il vento gelido e il fondale marino si erano eclissati. Mi trovavo
nell'ingresso della città, vicino all'innalzamento che avevo fronteggiato. Mi alzai
frastornato e completamente inebetito. I miei abiti erano asciutti e il cielo era tornato
brillante. Come al mio solito tentai di trascurare quello strano evento e di portare
avanti la mia ricerca. Ridussi il tutto alla mia immaginazione e alla mia fantasia.
Sicuramente, dopo aver imboccato la stretta rotta, ero svenuto o caduto a terra per
qualche strana ragione. Non riuscivo però a spiegarmi come fossi tornato alla posizione
di partenza. Mentre camminavo potevo sentire il rumore del terriccio calpestato dalle
suole delle mie scarpe. Nel paesetto regnava la più assoluta quiete. Appena presi la via
principale notai con grande stupore che i lumi erano state appesi ai lampioni ed erano
ardenti. Con il loro barlume fioco illuminavano il centro del passaggio e mettevano in
risalto le sagome singolari delle residenze. Già le abitazioni. Avevano perso il loro
aspetto antico ed erano come nuove. I tetti colorati erano tersi, le porte erano ben
chiuse e salde, le finestre di color verde chiaro erano aperte. Mi accostai furtivamente
al primo appartamento del cammino. Raggiunsi una delle finestre e tenendomi le mani sulla
fronte scrutai l'interno. La stanza ben arredata era illuminata da una lampada ad olio
posta su un vecchio comodino di legno d'ebano. Al centro vi era una tavola sproporzionata
e rettangolare, imbandita e ben apparecchiata. Dalla casa non proveniva alcun suono e
tutto era laconico, immobile. Successivamente mi spostai da un altro angolo dello stabile
e potei avvertire che si trattasse di una stanza da letto per bambini. Un piccolo letto
ricoperto da coperte nivee e per terra, al centro, un grande drappo circolare verde.
Inoltre in giro qua e là vi erano dei piccoli fantocci di legno e una pallina colorata
d'azzurro. Non riuscivo a capire come mai non me ne fossi accorto prima che in questo
paesino abitasse qualcuno.
Avanzando notai l'emporio abbandonato che ora era come nuovo. L'insegna era affissa sulla
porta e all'interno si poteva udire un grande schiamazzo di voci. Mi avvicinai ma
all'interno vidi solamente il bancone impolverato e nient'altro. Ormai era notte fonda e
le ali di Morfeo si aprirono nella notte e toccarono il mio cuore che si lasciò da parte
al sonno. Non sapevo dove recarmi per trascorrere la notte, quindi cercai una baita.
Quando giunsi per la terza volta nella piazza principale notai la grande statua che
sovrastava la piazzetta. Era rappresentato un uomo a cavallo che si sollevava sulle sue
zampe posteriori. Il volto dell'uomo era arcigno e misterioso, sembrava assumere col tempo
un sorriso beffardo, di spregio. La sua mano destra prendeva le cinghie di cuoio
dell'animale, mentre la sinistra sguainava la spada di bronzo che puntava intimidatoria
verso di me. Mi avvicinai meglio e potei notare che vi era sul cippo un'incisione che
riportava la seguente dicitura: "Federico Barbarossa I", "Qui
il popolo si mostrò alla sua autorità". In seguito era riportato un mese che
non era del tutto indubitabile.
Squadravo quella statua da ogni angolo dello spiazzo. Quando gli girai attorno notai che
dietro di lei vi era un prolungamento del percorso principale che portava ad un poggio.
Decisi di percorrere quella via che prima, a causa della bufera, avevo lasciato a mezzo.
Il viottolo si faceva sempre più angusto man mano che risalivo fino a quando mi ritrovai
di fronte ad un maniero. La costruzione era tardo gotica e le sue alte guglie erano dritte
verso il cielo siderale. Il portone di ferro rugginoso era adornato con alcune
rappresentazioni di animali e figure celtiche.
La prima cosa che risaltava nel castello era la parte centrale della facciata. Questa zona
era affrescata con un colore fra l'oro e il bianco, in contrasto con il tono grigio scuro
delle fortificazioni del castello. Una figura scolpita sovrastava la porta centrale. Era
raffigurata una dea o qualche divinità femminile che portava in mano una spada
scintillante.
Ormai il freddo incominciava a farsi sentire e così lasciai la mia postazione e afferrai
le pesanti anse della porta. Appena le sollevai, le lasciai andare e il colpo sordo si
udì all'interno del fortilizio. Aspettai silenzioso fuori dall'abitazione per circa
cinque minuti e quando volsi le spalle all'uscio per andare altrove a cercare ricovero,
sentii la porta cigolare e aprirsi pigramente.
IV
Quando mi volsi notai un'ombra scivolare lungo la parete e uscire dal
portone. Mi apparve una giovane donna. Era coperta con una veste lunga dorata che le
avvolgeva tutto il corpo eccetto la testa e le mani. I suoi occhi azzurri chiari erano
misteriosi, ambigui e i capelli biondi le coprivano fortuitamente parte del viso. Più che
un umano, mi sembrava un'intelligenza celeste, una figura sovrannaturale che si alienava
dalla terra. La sua bocca si aprì in un sorriso e tutto ciò che potei fare fu di
ricambiarlo con un: "buonasera".
Eravamo fermi uno di fronte all'altro. Nell'aria non si captava neanche il soffio della
placida corrente che ormai si era rincuorata. Il fruscio degli alberi si arginò e ogni
altro rumore notturno trovò riposo. I miei pensieri erano sereni ma allo stesso tempo
confusi e sconnessi. Quello che dovevo dire era facile: cercavo un rifugio dove passare la
notte per riposarmi, non avrei dato alcun fastidio, rimanevo là solo per quella
nottata
Ma tutto si mescolò e si dissolse lestamente e ciò che rimase nella mia
mente fu il vuoto più totale. La donna continuava a fissarmi con discrezione e con il suo
sguardo sembrava aver colto le mie preoccupazioni. Il suo volto era sicuro e tranquillo ma
sembrava timorosa e impensierita. Il mio arrivo era accidentale per lei, forse aspettava
qualcun altro? Le domande che mi posi furono consistenti ma nessuna trovò un fermo e
razionale riscontro.
Erano passati solamente pochi secondi ma mi era sembrato di trascorrere un'intera stagione
di fronte a lei. Si! Potevo sentire i germogli sotto le mie suole nascere e crescere come
se fosse sopraggiunta la stagione dei fiori. La primavera. Ero in grado di sentire dietro
di me il giorno ardere con tutta la sua potenza e liquefare la neve che si era addossata
durante il lungo inverno sulle tettoie vivaci. Potevo ascoltare il lieve ronzare degli
insetti, le larve che uscivano dal terreno per cercare un esile barlume glaciale di luce.
Era trascorso tutto quel tempo dal nostro incontro? Forse il lasso e l'estensione sono
snaturati? Che cos'era l'infinito per me o per lei? Divorava questi miei pensieri e li
tramutava, li univa alla sua volontà, sotto il suo controllo, sotto il suo potere. Solo
noi due in tutta la zona, solo due vite umane a paragone! Un convegno tra il fattibile e
l'impossibile, tra l'agghiacciante e il dolciastro assopimento della tarda serata!
Pensieri, basta a ponderare anche or ora non so quello che proferisco o che bramerei di
assentire ciò nonostante
Sollevando con calma la mano mi offrì ospitalità. Il gesto così lento e così eccitante
mi rese preda del suo arbitrio. Quasi meccanicamente le mie mani incominciarono a muoversi
seguite dai miei piedi. La ragazza si volse ed io la seguii dentro il castello senza
pronunciare lemma, scortato da quel sibilo nelle orecchie che ora si andava a collocare
sensibilmente verso il mio cuore.
V
Un pendolo nero d'ebano diede il benvenuto alla mia entrata nel maniero
con un lugubre e fatale effetto acustico. I rintocchi, lenti e longilinei, si spandevano
in tutto l'edificio, di stanza in stanza e ogni oggetto era impressionato da questo
regolatore del tempo. Il guizzo di luna che si introduceva come la fiamma di un drago
all'interno della dimora si specchiava sulle lastre di vetro che ornavano le pareti
interne. Si veniva a creare un'atmosfera chimerica, tetramente piacevole e allegra che
defletteva il mio stato d'animo.
Davanti ai miei occhi notai un soffice divano largo e d'orato. Tipico del 1200. Lo guardai
fisso per circa tre secondi e ne rimasi eccentricamente ammaliato. Un esile richiamo mi
svegliò dal mio dolce e solitario torpore.
-Ti piace? E' forse uno dei divani più antichi che esistano al mondo. Un solo pezzo di
questo immobile vale più di tutto il castello
-Ma ti pare?- replicai inavvedutamente senza volgermi.
-Devi essere esausto non è vero? Puoi recarti nella stanza 12. Ci vediamo domani mattina.
-Certo domani. Grazie. Notte.
-Notte.
Non ero cambiato, non l'avevo ancora un'altra volta guardata. L'avevo lasciata in sala con
un riso sulle sue sottili labbra. Che cosa avevo chiesto lo dimenticai subito. Cessai di
ricordare il numero della stanza. Ero confuso ma anche felice di rimanere in quella
residenza. Montai le gradinate e senza badare in quale vano fossi addentratomi, mi
abbandonai sul letto e chiusi intimamente gli occhi. La tarda serata ormai aveva sostato a
sufficienza. Era l'alba e il flebile sole saggiava di avere il sopravvento sulla smorta
luna.
Una pioggia violenta circondò Skelleftea e tutta la natura si risvegliò dal letargo
profondo e dal brusco sopore. Il freddo irritante entrò nella mia camera. Si ficcò sotto
le coperte di lana e sfiorò i miei occhi che si distesero al suo decreto. Nella stanza
era buio ma i miei occhi si abituarono presto. Sopra di me pendeva un candeliere ad olio
d'orato. Era molto antico ma nitido e fulgente. Tintinnava ogni qual volta che un lieve
soffio di vento entrava dalla porta. Le pareti erano guarnite con fiori e nature morte.
Vicino alla soglia, si potevano vedere delle strutture sbiadite che rappresentavano due
nobiluomini a cavallo durante un collaudo di appostamento. Tutta la stanza, anche se
piccola, era molto ben curata. Solo la finestra era in conflitto con tutto l'ambiente. Era
una piccola fessura, una feritoia che ripagava all'esterno. Non era addobbata, anzi, era
coperta con delle affilate travi che a malapena erano capaci a dar vita a un fascio
luminoso di sommessa sopravvivenza.
Non sapevo che ore erano esattamente ma udii i rintocchi lugubri del pendolo che segnavano
le sei. Mi alzai lentamente. Presi il mio soprabito e decisi di andare in giro per
l'edificio. Appena uscii notai un lungo androne, reso luminoso da alcune candele ma anche
dalla innata luce bigia del giorno. Mentre avanzavo a rilento, l'acquazzone si faceva
sempre più vigoroso. Vidi da lontano un uscio che doveva svolgere verso l'alto. Era
stretto e basso, di certo non era aperto da ere. Mentre salivo gli staggi che conducevano
alla porta, la pioggia si faceva sempre più possente e ponderosa. Batteva saltuariamente
il tetto del castello. Notai una catena che accartocciava il chiavistello. La feci muovere
a strascico con un colpo secco e si frantumò. Appena vidi il legame per terra le lacrime
d'acqua iniziarono a spingersi dentro le travi della volta. Erano pesanti e stranamente
spesse. Ferivano le mie spalle e la mia testa tanto che fui costretto a coprirmi con il
tabarro. Decisi di ripararmi in soffitta per evitare di bagnarmi del tutto. Presi una
fiaccola dalla parete e sfidai le tenebre che si erano anche loro esiliate in quel luogo
di dimora insieme a me.
VI
Le tele di ragno si cinsero sul mio volto e cospicue blatte batterono
le mie mani. Mi misi in uno spigolo popolato da un baule. Lo schiusi e ne estrassi un
foglio giallognolo e sicuramente arcaico. Era molto fragile e si sgretolava sotto le mie
mani. Levai delicatamente la cenere e tentai di decifrare le iscrizioni. Era scritto in
svedese vetusto ed inoltre l'umidità aveva disperso l'inchiostro. Dopo una bella mezz'ora
passata a interpretare quel ritaglio di documento obliato dagli anni, potei desumere che
si trattasse di una cronistoria. Probabilmente in città vi era stata un'invasione da
parte di un'armata nemica, viceversa vi era stata un'epidemia, sicuramente qualcosa di
tremendo. Mi imposi di esigere spiegazioni da lei
si a
non le avevo chiesto
neanche il suo nome!
Uscii sollecitamente dalla stanza come se il diavolo mi stesse salvando. Appena spalancai
la porta non sentii più lo scroscio dell'acqua e così avanzai con più franchezza. Corsi
lungo il passaggio interno e discesi le scale che fremevano sotto il mio cammino. Stavo
entrando nella soggiorno principale quando il pendolo marcò con i suoi morituri rintocchi
le sette. Entrai con bonaccia nel locale. Non era cambiato nulla dal precedente
crepuscolo. Il canapé riluceva nella penombra della stanza. Percorsi la dimora
perpendicolarmente cercando lei. Quando giunsi all'angolo, mi girai celermente.
-Dormito come si deve?- Era lei al centro della grande sala che mi sogghignava. Di sicuro
la sua bellezza e il suo splendore erano in netto contrasto con il tempo stancante e
fosco. Mi accostai a lei e mi assisi sul divano. Era in piedi di fronte a me. Non rideva
più, il suo volto era cambiato. Il suo allegro e fiorito sorriso era privo di vita quando
vide nella mia mano il canuto giornale che avevo trovato in mansarda.
-Dove l'hai preso?- Mi chiese con tono di biasimo.
Questa volta non mi feci trarre in trappola dai suoi occhi e senza guardarla gli spiegai
come ero sopraggiunto in soffitta e dove avevo trovato il resto di pagina. Poi gli
domandai sottovoce, come se qualcuno stesse a darci ascolto, se ne sapesse qualcosa.
-Meglio non aprirne bocca- Rispose volgendosi subito.
Abbassò la testa verso il pavimento di marmo e con una sottile nota interrotta da
singhiozzi di pianto mi spiegò tutta la vicenda.
Ere fa, i suoi genitori giunsero con altri mezzadri in questa terra solinga per sfuggire
dalla violenza di Federico Barbarossa I, re e dominatore svevo. Provarono a darsi degli
statuti e delle norme per mettersi in salvo ma tutto fu inutile. Federico aveva
individuato tramite alcuni delatori di corte il loro rifugio ed era pronto a castigarli.
Tutti i residenti si dotarono di armi e iniziarono a costruire luoghi fortificati e cinte.
Scavarono un alto pendio all'inizio della città e inoltre decisero di progettare questo
immenso castello nel caso di un molto probabile attacco. Era la notte del 25 Dicembre.
Secondo alcuni nostri alleati, Federico avrebbe attaccato durante notte solcata, quando
erano pronte tutte le festività. I miei capi famiglia li avvertirono e tutti si
rifugiarono nei loro fabbricati. Era ormai passata mezzanotte e i fittavoli uscirono dalle
loro case. Il momento critico era stato sventato e tutto poteva incominciare. Ma le
ilarità e gli abbracci durarono come il soffio vitale di una stilla d'acqua. Il cielo
luminoso si estinse e diventò tenebroso. Le nubi cominciarono a divenire sempre più
estese e corvine da foderare l'ultimo riflesso della luna. Il panico si istoriò nei
lineamenti dei coltivatori. Da lontano si poteva vedere un cirro di fumo e di vento
sollevarsi impetuosamente dalle concavità del ghiacciaio. Era l'esercito di Federico. I
suoi paladini neri erano ricoperti da dei lunghi mantelli a lutto. Il viso era coperto
dall'ombra dell'oscurità. I puledri dagli occhi fulvi galoppavano impavidi e superavano
velocemente le inutili difese. Non ci fu molto da sperare per i suoi concittadini. Quei
pochi che si salvarono dal primo attacco si ripararono all'interno del fortilizio così
come i suoi genitori. Ma Federico e i suoi proseliti li snidarono come un felino che gioca
con un ratto, troppo povero per contrapporsi. Tutti furono trucidati in massa
-
Anche i miei genitori
- Soggiunse la ragazza con un filo di voce-
Io mi
nascosi in mansarda durante il tempo in cui le urla dei senza speranza rimbombavano nella
mia casa. Non voglio neanche spiegarti lo spettacolo che mi si mostrò davanti. Ma tu
capirai la mia rovina?
La sua rovina che aveva marchiato anche la mia esistenza. Le case distrutte il fuoco e i
morti lungo le vie. Scene di morte e di alti vagiti. Certo che posso contemplare.
- Beh
vi siete messi su bene da come adocchio!- Aggiunsi questa frase per spezzare
l'inquietudine. - Nella cittadella c'erano delle abitazioni ma neanche una persona
internamente. Dove sono tutti?
-Veramente qui abito solo io
solo io sopravvissi a questa pena eterna.
- Eh no, in città ci sono altre persone
Le ho sentite ma non le ho viste e
-
Le parole non uscivano più dalla mia bocca, si erano congelate. Avevo capito tutto. La
ragazza senza parlare mi aveva fatto scoprire la sciagurata veridicità. Non mi attendevo
altro da lei. Ero immobile mentre nella mia mente venivano scandite queste parole:
-
Sono visioni, oggi è il 25, oggi ritorna per liquidare l'ultima reduce e tu mi
vedrai perire
Non poteva essere vero. Tutti fantasmi eccetto noi due. Attaccati, uno vicino all'altro.
Non riuscivo ad alzarmi o a parlare. Il nubifragio riprese a ritmi sostenuti. Questa volta
anche i tuoni e i fulmini l'accompagnavano crudelmente. Il castello rabbrividì. I
doppieri e il grande candeliere si spensero. Le porte di legno si aprirono e nella stanza
si diffuse lo straziante lamento del vento impetuoso. I vetri delle finestre si
tranciarono e i rimanenti pezzi si infransero al suolo. Gli arbusti oscillavano e i rami
secchi scorticavano le cime del castello. Eravamo nel buio più perentorio ma riuscivo a
discernere ancora il volto della fanciulla. Fermo, immobile, impassibile.
Anch'io rimanevo saldo più per la paura che per una sfida mentale. Un fulmine rischiarò
la stanza e tutto era mutato.
VII
Le facciate d'orate erano diventate di un rosso sanguigno e chiaro. Le
finestre disfatte e spalancate questa volta facevano passare oltre al vento, anche il
nubifragio che inondò il cemento. Le travature del soffitto gemevano. L'acqua grave stava
pian piano penetrando fino a far saltare una parte di questo. Il grande doppiere si
fracassò a terra e rimase immobile. I quadri e i marmi erano squarciati a metà. Per
terra si dilatava una grande chiazza di sangue profondo. Tutto era sudicio di quel
colorante. Anche i miei abbigliamenti e il pregiato canapé. Il caminetto emanò una
flebile fiamma per poi arrestarsi per sempre. Il pendolo scuro emanò i soliti fondi
rintocchi. Questa volta erano energici ed estesi. Non terminavano più, erano asfissianti.
Guardavo la ragazza prostrata a terra e con il volto fra le mani. Piangeva senza speranza
come un agnello consapevole della sua rapida ed inevitabile morte. Il pendolo rintoccò
l'ennesimo colpo, si scagliò nell'aria e si spaccò in mille pezzi. I cristalli mi
centrarono provocandomi diverse ferite sulla faccia. Il sangue scendeva dalle pareti a
getti. Mi alzai vincendo le mie paure deciso di aiutare la signorina per terra ma appena
mi misi vicino si voltò verso di me e singhiozzando mi implorò:
-Soccorrimi, non voglio morire
lo puoi sentire sta già arrivando con la sua armata.
Fra poco sarà qui e rivivrai quella notte. Non permettere che questo castello venga
soppresso. Nascondiamoci
Aiutami
Ti prego
I miei occhi per la prima volta si riempirono veramente di lacrime. Cosa potevo fare? Ero
disarmato. Non sapevo dove andare, dove mettermi in salvo. Si sentì fuori dal borgo un
rumore satanico. Andai verso la porta a rilento ma appena la sfiorai un robusta percossa
mi fece finire per terra. Guizzai verso l'angolo più lontano e quello che vidi fu
orribile. Una dozzina di cavalli neri con la schiuma alla bocca erano entrati e avevano
circondato la ragazza. Gli uomini che li cavalcavano erano coperti dal mantello nero e
estrassero la spada rossa di sangue vivo. Ridevano e ghignavano. Sollevavano i corsieri e
eliminavano quelle poche cose che erano rimaste immacolate. La giovane era arretrata ma il
divano che aveva tanto apprezzato gli impedì di allontanarsi. I cavalli percorrevano il
soggiorno in tutti i sensi. Ad un certo punto il pendolo d'ebano, ormai fatto a pezzi,
fece un rintocco talmente immenso, penetrante, lungo e cupo che tutti si fermarono e
osservarono il portone. Si percepiva solo il pianto interrotto della fanciulla e il
laborioso sbuffo dei destrieri.
La porta d'ingresso, ardua e deteriorata si spalancò di sorpresa. Le imposte sbatterono
violentemente contro il muro facendo sgretolare l'intonaco ricoperto d'oro. Un'ombra
grigia, illuminata da un esile raggio di sole, varcò la soglia. I miei occhi guardavano
le tenebre mentre la figura si aggomitolò sopra il mio corpo. Una mano sporse per prima
comodamente. Poi apparve il muso di un cavallo nero. I suoi occhi di fuoco fissavano la
stanza e dalle sue narici usciva un fumo caldo. Apparve l'uomo che montava a cavallo. Era
alto e aveva un portamento semplicemente raffinato. La sua durlindana era accuratamente
posta nella teca di cotenna. Il suo mantello blu scuro avvolgeva tre quarti della spalla
sinistra e si raccoglieva verso il collo con una allacciatura alquanto macchinosa. Il viso
era smunto e addobbato da una fitta barba di color rame scuro. I suoi occhi, piccoli e
infossati non esprimevano quella malvagia presunzione che si pò trovare in ogni nobile.
Accennò ad un sorriso beffardo e maligno, i suoi denti dorati risaltarono nella stanza
priva di luce. Si avvicinò alla ragazza mentre i suoi fedeli, si allontanavano formando
un cerchio perfetto. Era lui, certo, Federico Barbarossa I, la statua al centro della
piazza era molto somigliante a questo giovane comandante.
-Piacere di rincontrarti!- Disse con tono cedevole e tagliente alla giovane che aveva
smesso di piangere e aveva riassunto la sua originaria espressione - Oggi completerò la
mia opera e tutto sarà ultimato! Pensavi che mi saresti scappata?- Sbraitò più forte-
Ma ti sbagliavi, qui, da me, non sfugge nessuno. I tuoi genitori osarono sfidare il mio
esercito e io li punii ed ora anche tu vuoi rendere popolare il mio sterminio. Ma questo
non succederà mai! Sarai punita come i tuoi amici, come i tuoi parenti. Sarai suppliziata
e vivrai il giorno più buio della tua storia
Ora, io sono un uomo bendisposto e ti
concedo una possibilità. Dimmi dov'è il ragazzo a cui hai confessato le mie colpe e
avrai una morte più veloce e meno tormentosa.
Il sangue si gelò nelle mie venature. Federico voleva anche me. La ragazza mi aveva
svelato tutto ed anch'io sarei stato condannato. Per fortuna non mi avevano ancora visto.
Ero nell'angolo più buio. La ragazza continuava a rimanere in silenzio e la pazienza di
Barbarossa stava avendo un limite detratto. Il cavallo digrignò denti e i fautori
iniziarono a ridere e urlarono. Nella foresta si elevò un canto funebre per l'orribile
martirio. I tuoni smossero il terreno e la pioggia fitta e battente si incuneava da tutte
le parti del maniero. I puledri neri si sollevarono come di rituale sulle zampe posteriori
e tutti i guerrieri estrassero le gladi luride di sangue. Un vigore dentro di me mi spinse
ad alzarmi in piedi, a ribellarsi, era uno spettacolo macabro quello che mi veniva offerto
dalla vita e io dovevo fare qualcosa. Sgattaiolai verso la parete più scura e lentamente
mi dirigevo dietro a Barbarossa. Ma non ebbi neanche il tempo di muovere il passo
fondamentale che andai a sbattere contro il coccio di un vaso e il suo tonfo si alzò
nell'aria.
-Eccolo è lui!- Risuonò la voce nella stanza. I soldati a cavallo mi videro nella
penombra e sentii ancora delle delicate risate. Barbarossa si voltò verso di me
mantenendo il ferro con la man sinistra. Il suo sguardo era bieco e arcigno. I suoi
piccoli bulbi oculari erano dei grandi demoni rosso fuoco e scrutavano il mio sguardo. Ero
ormai vicino al portone aperto. Il purosangue nitrì e le mie gambe si spostarono lontano
da quel nefasto posto. Correvo come mai avevo fatto in tempi più lieti. Correvo lontano
da quella follia e da quell'orrore. Correvo lontano da Skelleftea.
La mia curiosità si era trasformata in disprezzo. Era una città maledetta! Fuggire era
inutile, i cavalli mi avrebbero raggiunto velocemente e per me sarebbe stato l'ultimo
respiro di vita. I seguaci di Federico si inclinarono sui cavalli, pronti a schizzare. Ma
la voce autoritaria di Barbarossa ordinò loro di non seguirmi, di lasciarmi andare. Sarei
morto lo stesso.
VIII
Mi misi dietro ad un pruno, sicuro che non mi avrebbero visto. Potevo
scorgere il portone principale e all'interno le sagome degli uomini e degli stalloni.
Federico non prestava più attenzione alla mia ritirata. Si era nuovamente voltato verso
la ragazza. Parlò a voce alta. Sapeva che ero nei dintorni e voleva farmi vedere quale
sarebbe stata la mia fine.
-
Victoria
- sicuramente il nome della ragazza!- mi hai sempre mentito e per
questo non mi resta che dirti addio
Con un cenno della testa i cavalieri si chiusero intorno al corpo femminile che si posava
sul pavimento di marmo. Era indifesa e non fece alcun ostacolo al suo destino. I soldati
sollevarono la scimitarra e diversi fendenti trafissero il suo cuore. Si sentì un sordo
pianto soffocato e il classico colpo grave di un ente materiale che cade esamine a terra.
Il blocco nero continuava ad infierire senza pietà sul corpo lacerato e dal suo torace
uscì un corso di sangue che inondò il pavimento. Eccezionale! Il frontespizio principale
esterno dorato cambiò colore. Si accese di un rosso forte ed intenso. La statua spense il
suo sorriso lieto e festoso e piegò accoratamente gli angoli della bocca. Aprì le mani
lasciando cadere la spada sfavillante. La spada della vita. Federico rideva e le sue urla
di gioia risuonavano in tutto il paese. Un razzo colpì il terreno violentemente e ciò
che rimase fu un odore aspro e forte! I fantini afferrarono le faci dal muro, diedero
fuoco a tutti gli immobili e a tutti i cortinaggi. Alla fine Barbarossa con un gesto
inopinato indicò di seguirlo e sbraitando e glorificando la sua impresa uscì galoppando
dal castello lasciando alle sue spalle una scia di distruzione e di virulenza. Sicuramente
volevano stanarmi dal mio rifugio e quindi stavano ritornando in piazza.
Mi guardai attorno e accidentalmente entrai nel esecrabile castello. La ragazza, o meglio,
la potevo chiamare Victoria, giaceva sul fianco sinistro. Il volto era delicatamente
disteso sul marmo e i suoi lunghi capelli dorati scivolavano sulla sua schiena per poi
arrivare in una larga pozzanghera di sangue. Mi avvicinai e la mossi con un braccio. Forse
era ancora viva. Aprì gli occhi molto lentamente e il suo colore azzurro ghiaccio mi
riempì di tristezza e di vendetta. La sottile bocca era serrata e appena l'aprì la
chiuse lentamente. Non poteva parlarmi nella vile realtà ma nel mio pensiero. Rimasi in
silenzio per sentir quel rumore perforante. Il nero delle tenebre mi avvolse e il suono
diventò più forte, più vivo. Un respiro leggero mi accarezzò la bocca e mi fece
sussultare e sospirare la parola "Skelleftea". Piansi, piansi, piansi tre volte
e per tre volte ripudiai il mio errore. Avevo fatto una promessa, quella di coprirla e
avevo mancato il mio sublime dovere. Non restava altro da fare che lasciarmi andare tra le
braccia della morte. Ad un tratto girò il viso e parlò con una voce brevilinea.
-Perché mi hai lasciato? Perché mi hai lasciata da parte. Io ti ho aiutato e protetto
per tutto questo viaggio e tu non hai ricambiato la mia cordialità. Fuggi, fuggi finché
sei in tempo... oltre alla morte ti perseguiterà il mio dolore! Vai via...ti prego vai...
Emise un gemito profondo e trattenne a lungo il pianto di addio. I suoi occhi erano pieni
di lacrime e le gocce del soffitto si appoggiavano delicatamente sul suo corpo e sul suo
volto. Decisi di non sfiorarla ma mentre le volgevo le spalle, sapevo che non avrei mai
più visto un angelo così incantatore. Camminavo lentamente sul terriccio reso fragile e
umido dalla pioggia che come in un pianto malinconico, emetteva con il vento dei suoni
addolorati, rintoccati dai dei tuoni tristissimi. Gli alberi secchi avevano i rami
frantumati e ogni vita che vi era nel raggio di quella dimora cessò di esistere. Era
morta la vita, era morto il bene malizioso e incantatore, l'unico a dare colore in quella
slavata e decolorata cittadina.
Mi trovavo quasi prossimo al piazzale quando udii delle urla venire dalla città. Alzai
l'addolorato capo prono e quello che vidi non fu confrontabile alla devastante ed astiosa
morte.
IX
Esseri umani vestiti con pochi abiti logori neri fuggivano da ogni
parte. Le case erano messe a fuoco e completamente depredate. Stavo rivivendo la fine di
Skelleftea. Al centro della piazza erano stati fissati alcuni arpioni e lì venivano
sospesi i morti. Indietreggiai e andai a sbattere contro un corpo. La pelle dello
sventurato era color olivigna. I pochi capelli bianchi coprivano parte della nuca. Gli
occhi erano socchiusi e girati all'indietro. Le coronarie erano piene di sangue che colava
da ogni parte. Le gambe sottili erano prive di vita ed erano trasportate passivamente dal
forte vento. Gli abiti erano più dei cenci arcaici: strappati e rovinati da alcuni colpi,
segno di una dura lotta contro un rivale. Sul collo, invece vi era un taglio netto e
profondo che recideva metà collo lasciando intravedere parte della trachea e della
cartilagine ridotta in frantumi. Dalla bocca screpolata usciva una bava cerea che colava
sul suolo formando piccoli schizzi. Ad un certo punto i polmoni si dilatarono, le costole
si alzarono lentamente e il diaframma si ridusse. Sprigionò un urlo fortissimo, alto e
acuto, esprimeva quella creatura tutto il male che aveva sopportato e il dolore che io
stesso avrei affrontato. Il corpo si piegò e gli occhi bianchi si spalancarono, la lingua
alzata permetteva al morto di urlare con tutto il fiato che aveva in massa. L'urlo stonato
e pieno di spasimo e di una mancata pietà si alzò nel cielo opaco
Iniziai a fuggire lontano da quel dannato posto. Gli avvenimenti di cui ero stato
testimone superavano di gran lunga la mia fantasia e le mie intramontabili paure. Correvo
sul selciato scivoloso. Mentre avanzavo rapidamente veloce e scattante i miei occhi
incontravano tutti gli orrori dell'umanità. Persone che fuggivano dalle loro case in
fiamme. I seguaci di Federico che rincorrevano le donne e i bambini e con le loro spade li
infilzavano come carne sulla brace. Altri venivano condotti a forza su un patibolo
rudimentale costruito solo per diversivo. Tra urla strazianti venivano impiccati e i loro
corpi appesi, come avevo già visto, lungo le strade o vicino a delle lanterne come severo
avvertimento per tutti.
Ad un certo punto andai a sbattere violentemente contro il fianco di un cavallo bruno. Era
quello di Barbarossa. Era fiero del suo malvagio lavoro e appena mi vide non si fece
sfuggire quel suo strano e perfido ghigno. Mi rialzai velocemente ed iniziai a dirigermi
verso l'entrata di Skelleftea. Non mancava molto. L'acquazzone diventava sempre più
pesante e impediva di accelerare la mia sfrenata e disperata galoppata. Le piante con i
loro rami asciutti mi sbarravano il passo e mi tagliavano ovunque. Diversi residenti del
luogo mi acchiappavano dalla palandrana per chiedere un vuoto aiuto. Barbarossa mi teneva
dietro, ora insieme ai cavallerizzi neri. Ero vicino all'uscita, il dirupo, dovevo
superare quello ma era troppo sopraelevato. I cavalieri erano a pochi metri
dall'uccidermi! Che dovevo fare, buttandomi sarei morto lo stesso! Erano a pochi passi e
le loro spade puntavano la mia anima e il mio cuore.
- Prendetelo non deve sfuggirci!- urlò Barbarossa.
Erano accanto a me. Una spada mi lese un braccio e prima di ricevere il colpo perituro,
con uno scatto senza lusinga mi gettai nel vuoto.
X
Stramazzai pesantemente sul suolo. Ero caduto in deliquio. Intorno a me
potevo sentire le risate dei cavalieri e di Barbarossa che si allontanavano fino ad udire
il più tirannico mutismo. Stordito mi alzai.
Proprio quando ero quasi rettilineo ai miei piedi, diversi ululati e suoni pungenti e
stridenti si rizzarono verso il cielo opprimente. Il ghiaccio sobbalzò e iniziarono a
comporsi delle incrinature. Gli urli di dolore riprendevano. Era la morte che si
esprimeva. Le case crollarono così come il castello. Il ghiacciaio non sopportò quel
tragico suono e si sgretolò come una foglia secca d'autunno. Tutto si immerse nell'acqua
gelida e congelata. Ogni forma di vita, ogni spirito e ogni immagine buona o cattiva aveva
raggiunto la dipartita finale. Il paesino era scomparso dalla terra, aveva trovato un modo
per non rinnovare più quella violenta notte del 25 Dicembre. Sì! Era tutto compiuto.
L'unico reduce ero stato io
Sono passati ormai alquanti anni da questo evento e ancora non posso dimenticare ogni
singolo episodio. Non posso dimenticare gli occhi, il volto e i capelli d'oro di Victoria.
Da quel giorno non ebbi più sue notizie e quelle strani voci nelle orecchie. Non sapevo
se era morta o se era riuscita inaspettatamente a trarsi in salvo. Il suo dolore e la mia
mancata promessa mi perseguitano, come disse lei, ancora oggi. Ogni notte prima di andare
a dormire sento sempre un soffio di vento che mi fa tremare le labbra e ogni volta che
questo avviene scoppio a piangere. Ma dai miei occhi non escono lacrime d'amore ma di odio
contro me stesso. E se qualche volta volete venire a sentire la mia corsa degli eventi
potete venirmi a trovare, sicuramente la vostra presenza conforterà il mio prossimo ed
inevitabile sonno eterno. Venite a rinvenirmi qui quando sarò morto, a Skellefta.
"L'orizzonte grigio all'imbrunire risvegliava in me quel piacere d'avventura che mi aveva caratterizzato fin da piccolo. Esplorare le montagne ghiacciate, i boschi innevati e le immortali praterie verdi coperte da un soffice velluto di neve; girovagare solitario per i burroni scoscesi o attraversare i fragili ponti di legno d'ebano scossi dai lieviti aliti di vento. Nessun mondano avrebbe potuto provare quella gioia e quel timore di curiosità che avvolge l'animo umano come lo provavo io, nessuno avrebbe potuto sentire quel brivido d'avventura scorrere tra le dita, pronto a fuggire in ogni istante della nostra breve e funesta vita "