Ora

Finalmente li aveva trovati: seguendo le loro tracce per tre giorni era riuscito a colmare il loro vantaggio e ora non vedeva l'ora di purificare quel luogo maledetto. -Sciocchi!- pensò, - mi hanno portato proprio dal loro Signore-. Scese lentamente da cavallo e fece allontanare l'animale. Guardandosi attorno col solito sguardo da inquisitore tirò fuori dagli stivali due lunghi stiletti d'argento, assicurò la balestra alla tracolla, quindi avanzò allo scoperto sulla sommità della collina. Davanti a lui si apriva una larga pianura ma la vita non sembrava aver mai messo piede in quel luogo dannato.
In mezzo alla pianura c'era un castello, alto e cupo. Le guglie della fortezza erano altissime e molto antiche. Venti generazioni di Lord Oscuri si erano susseguiti in quel ricettacolo di follia. Alte vetrate cingevano la parte frontale del palazzo, ma erano così scure nei loro disegni blasfemi che la luce si guardava dal violarle. C'era anche un fossato tutt'intorno alle salde fondamenta, ma non era acqua quella che stagnava lì dentro.
Per chilometri poi il terreno era bruciato, non da fuoco ma da qualcosa che vale mille incendi, qualcosa che succhiava linfa vitale dalle vene sature di follia della terra in ottemperanza al volere dei loro padroni e domatori, qualcosa di incorporeo ma sicuramente presente, vivo. E pensare che quello non era che un fragile filo d'erba in confronto alla potenza della Alte Caste. Ma tutto ciò non spaventava il nostro eroe: era determinato e nulla lo avrebbe fermato se non la morte. Tuttavia la morte era sua messaggera e sembrava parteggiare più per lui che per il Nemico. Fedele compagna, lo precedeva lungo il cammino, araldo della sua venuta. Qualche sparuta figura si aggirava vicino al ponte levatoio abbassato che costituiva l'unica via di accesso; ma non sembravano lì per fare da guardia: nessuno era così pazzo da avventurarsi in quella regione dell'impero e l'Imperatore stesso non aveva alcun interesse ad occuparsi di quella faccenda che per il momento riguardava solo le regioni orientali del suo regno.
Appena lo videro in cima alla collina contro il rosso del sole al tramonto, parvero presi da una frenesia incontrollabile ed iniziarono a trascinare i loro piedi marci verso di lui. Non erano altro che i più umili ed i meno pericolosi servitori dei Lord, nati umani e catturati dalla Sete. -Non bestemmieranno più contro la Natura!- pensò con rabbia il Cacciatore e corse contro di loro. In una manciata di secondi furono a portata di tiro e i due stiletti piroettarono nella semioscurità fendendo l'aria fetida. Uno di quegli esseri maligni cadde a terra collassando mentre la malvagità che aveva scacciato la sua anima svaniva nel vento.
Caricati i paletti sulla corda tesa, abbatté con un solo colpo gli altri due.

Mentre poi strappava i corti dardi di legno dal corpo di uno di quelli, sentì forte e cupa una presenza. Il loro Signore era lì. -Arrivo- disse, e scomparve nei recessi della fortezza.
Lungo il cammino furono molti i perversi servitori del male che gli si opposero, ma il loro tentativo fu tanto inutile quanto vano. Il Cacciatore aveva abbandonato la balestra sul pavimento rosso sangue e ora procedeva spada in pugno. Sulla lama erano incisi gli stemmi di tutti i suoi predecessori che avevano combattuto la Sete in ogni sua forma, ma che alla fine erano tutti morti. Passando da un corridoio all'altro si trovò di fronte un portone maestoso, le cui arcane incisioni raffiguravano il trionfo del male: un cumulo di morti sorreggeva una sfera completamente nera: il male nella forma che gli uomini chiamano dannazione. Su questo globo stava una figura diabolica dal nome impronunciabile, sigillato nel fondo del pozzo della perversità. Con un vigoroso calcio la porta si schiuse e subito una calda luce pervase l'ambiente. Il Cacciatore entrò attirato da questa sensazione invitante ed accogliente, ma ben presto all'illusione della menzogna si sostituì la freddezza e la crudeltà della verità: una verità di orrore ed incubo.
L'Immondo era proprio lì, lo aspettava e lo invitava ad unirsi al banchetto, ma il Cacciatore non riusciva a muovere un singolo muscolo del proprio corpo. Con fredde parole senza voce disse: "Ora. E' giunto il momento di strisciare fuori dal limbo della nostra anima e di bere dal calice dell'eternità. E' finito il tempo della prigionia che ci opprime in una prigione scura, la prigione del nostro stesso essere, informi, malvagi, spietati. Il mondo ci rifiuta in quanto aborto di malvagità, bestemmia contro la natura e contro un genere che senza diritto di sorta si è accaparrato il presunto dovere di governare su questa terra, rifiutando la sua vera natura. Ora. Il cielo risuonerà delle nostre grida e fiumi vermigli non basteranno per saziare la nostra sete; grande sarà la magnificenza della nostra stirpe quando alte si staglieranno le torri della nostra possenza. Il tempo della grata sofferenza è finito, finita è la trista attesa. D'ora in poi nulla arresterà il dilagare del nostro verbo per queste terre e nulla potrà resistervi. La piaga frutto della nostra rabbia covata nei recessi della nostra mente sta per scatenarsi in un processo irreversibile. Grande è stato il nostro dolore ma ancor più grande sarà quello dei nostri carcerieri e figli; i demoni del tempo poseranno pesanti pietre sul presente ed apriranno finalmente le porte del futuro, in cui noi e noi soli saremo i padroni degli elementi. Mostreremo loro un mondo pieno di terrore e noi ne saremo gli oscuri araldi, i messaggeri dell'oblio, i Cavalieri dell'Apocalisse."
In mano teneva una coppa, una coppa di cristallo traboccante di uno strano liquido nauseabondo. Quando l'essere osceno alzò la coppa verso il suo rivale, tutta la saldezza di questo svanì come i fumi di un sogno dissipato. Non c'era nulla da fare, il male non poteva essere battuto dalla sola fermezza del semplice uomo; un male tanto grande, cresciuto ed ingrassatosi attraverso i millenni fin dagli inizi della storia dell'uomo, non può essere fermato dalla sua progenie stessa, di cui ora rivendica il possesso.
Poco dopo nulla occupava più la mente del Cacciatore, ormai liberato da un terribile fardello: il peso della conoscenza. Adesso tutto quello che lo poteva turbare e lo avrebbe sempre turbato, era una irresistibile Sete, fino a quando il prossimo patetico uomo non lo avesse restituito al nulla.

Teofilatto Fontana