La casa in fondo al viale alberato era un monolito eretto al passato. Pioppi, abeti, pini secolari la contornavano circondandola in anelli sempre più stretti. In quel nuvoloso giovedì di fine Maggio, con i piedi nudi appoggiati sul volante e la testa leggermente inclinata, fissava con serietà il muro di verde davanti ai suoi occhi. La magia che il fruscio delle chiome alberate sferzate dal vento pareva far cadere tutto intorno a lei, era tale da rapirla. E il rumore, o meglio, l'assenza di rumore in quel luogo che le pareva incantato, sembrava una linfa vitale in grado di guarire ogni sua ferita.
Avrebbe potuto vivere lì, avrebbe potuto morire lì.
La perfezione ultra terrena che quell'enorme massa verdeggiante, con i suoi rollii e beccheggi cullati dal vento, sembrava mostrare la indusse a tristi elucubrazioni. La stanchezza di un periodo che non le lasciava tregua per sognare, l'aveva infine vinta, sconfitta.
Un mese prima, durante una rissa in un bar, il suo compagno era morto trafitto da una pugnalata in pieno petto.
Lavoravano insieme da più di due anni, erano amici, oltre che colleghi di lavoro, e quella sera lei non era con lui. Aveva fatto un cambio turno per poter assistere la sorella durante il travaglio, ma quando era rientrata, il mattino dopo, carica di pasticcini e pizzette per festeggiare l'arrivo della nipote, il comandante l'aveva fatta accomodare nel suo studio e le aveva comunicato la terribile notizia. Lui, come si diceva in quelle tristi occasioni, lasciava una moglie che lo adorava e una bambina di soli due anni.
La portiera cigolò, due piedi bianchissimi e nudi poggiarono sull'erba fresca di rugiada. Stretto tra le mani un libro dalla copertina rigida che recitava "I vascelli del cuore". Percorse uno dei sentierini che conduceva ai laghetti con il passo lento e pesante che si intonava appieno con la giornata appena trascorsa. Accanto al tronco tagliato di un vecchio abete stese il plaid e si rannicchiò dentro ad esso come se all'improvviso sentisse freddo. Aprì il libro e cominciò a sfogliare per tornare alla pagina lasciata quella stessa mattina.
Lei era di nuovo alla ricerca di quell'amore imperfetto che non poteva entrare nella sua vita ma non ne poteva neppure uscire; lui, combattuto dall'amore violento e inevitabile per lei, si faceva divorare da sensi di colpa e angoscia.
Le parole viaggiavano veloci su un treno con destinazione la sua fantasia. Le braccia di lei si fecero pesanti, il suo sguardo assorto si fece lontano e assonnato finchè le palpebre non scesero e i pensieri si dissolsero nel sonno.
Freddo e umidità.
Un sottile solletico sull'avambraccio, segnale inconfondibile della lenta ascesa di una
formica, la ridestò quando ormai la sera era calata. Si trovò così sola, inerme, in
mezzo ad un buio scolpito dalle ombre ondeggianti della vegetazione, immersa nel rumore di
foglie e cicale. Balzò in piedi, arrotolò la coperta e avanzò a tentoni alla ricerca
della strada di ritorno per il parcheggio, come unica certezza la pistola d'ordinanza che
sbatteva dentro alla fondina ad ogni suo passo, rompendo quel silenzio inquietante e
riempiendolo di echi.
Confusa dal buio e dai rumori della sera incappò invece in una radura circolare dentro
alla quale troneggiava un albero dalle dimensioni colossali, probabilmente una quercia.
Strano che avesse perso l'orientamento. Quel parco lo conosceva fin da bambina. E poi
c'era quell'odore acre, che dava le vertigini, proveniente forse da un qualche tipo di
resina. Si guardò intorno cercando il sentiero che l'avrebbe riportata alla macchina, ma
qualcosa si mosse oltre i cespugli: qualcosa di troppo grande per essere uno scoiattolo e
troppo rumoroso per essere un anitra sfuggita al recinto al centro del lago.
Lasciò cadere il panno per estrarre con estrema circospezione la pistola dalla fondina.
La parò davanti a sé, puntata verso il cielo e sollevata in prossimità della spalla.
Arretrò finchè la schiena non cozzò contro la corteccia della quercia, poi una volpe
sbucò impertinente con in bocca il cadavere di un piccolo roditore. Sgattaiolò oltre la
siepe e lei potè tirare un respiro di sollievo. Ripose la pistola, e si chinò per
afferrare di nuovo la coperta, ma qualcosa attrasse il suo sguardo. Un laccio da scarpe.
Grigio, lungo, spuntava da dietro all'albero andandosi a posare in mezzo al tappeto di
foglie morte e detriti vegetali. La incuriosì. Si chinò e afferrò l'estremità del
laccio per poi tirarla verso di sé. Il laccio opponeva un po' di resistenza, cosa che le
fece pensare che probabilmente si era incastrato in qualcosa di grosso. Ma ad un certo
punto la sua trazione sortì l'effetto desiderato e quel qualcosa di grosso rotolò verso
di lei. Un piede umano.
Le volanti invadevano tutto il parcheggio con il loro danzare di luci rosse e blu. Il furgoncino della scientifica era posteggiato all'imboccatura del sentiero e il tecnico parlava a bassa voce con il medico legale. Tre agenti apponevano i sigilli a quell'area del bosco stendendo enormi quantitativi di nastro giallo attraverso i rami della vegetazione. Altri due agenti le stavano ponendo domande da più di venti minuti, scrivendo ogni parola che le usciva dalla bocca con dovizia di particolari. Altri due collaboratori raccoglievano in bustine di plastica oggetti e resti vegetali che potevano essere considerate prove.
L'aveva vista correre prima di appisolarsi. Le gambe ben tornite protette solo dagli short rosa, la schiena eretta dietro la canotta gialla e una fascia in tinta che le allontanava i capelli dalla fronte. Faceva jogging, come circa la metà dei visitatori del parco, ma forse, come lei, si era trattenuta troppo oltre il crepuscolo e questo le era stato fatale. Aggirando la quercia si era resa conto subito che la ragazza era morta, poiché uno squarcio le percorreva il ventre da sotto il seno fino all'altezza delle anche e gli occhi strabuzzati fissavano ancora il cielo in una tacita domanda: "perché?".
Scosse la testa come per scacciare l'immagine di quel corpo innocente violato a tal punto, e dovette chiedere al collega di formulare nuovamente la domanda. Il comandante si avvicinò poco dopo e con un gesto appena accennato allontanò i due agenti che la stavano interrogando.
"Tutto a posto?" chiese in imbarazzo.
Non se la sentì di rispondere. Non voleva che dalle sue parole
trapelasse lo shoc che l'aveva colpita prima, con la morte di Patrick e poi ora, con il
ritrovamento di quella ragazza dietro l'albero. Non voleva confidare il terrore vissuto
nei momenti successivi al ritrovamento, Terrore che l'assassino si potesse trovare ancora
lì, o che l'uomo responsabile di quell'omicidio potesse averla vista magari già
addormentata.
Non voleva confidare che al solo pensiero di essere stata così vicina a diventare la
preda di quello sporco essere senza cuore, le gambe le tremavano e gli occhi si riempivano
di lacrime.
Era un poliziotto, questi sentimenti non avrebbero dovuto trascinarla così, come un fiume
in piena, ma dalla morte del collega non era più la stessa.
Greta, la moglie di Patrick, l'aveva accolta tra le sue braccia rese
deboli dal lutto, e cullata come una bambina, seppure lei avesse tutti i diritti di
sentirsi la più colpita dalla tragedia. Invece aveva pensato al suo dolore, aveva avuto
parole di conforto e non di rimprovero, nei confronti di colei che era stata in parte
responsabile della morte del marito.
In polizia esisteva un codice di comportamento che non si trovava scritto in nessun
manuale, ma veniva scolpito a chiare lettere nei cuori delle reclute: mai abbandonare il
proprio compagno. Il proprio compagno è l'unica famiglia di un poliziotto, è come un
fratello. Il proprio compagno va protetto, va assistito. Un poliziotto e il proprio
compagno sono una persona sola.
Lei lo aveva lasciato da solo. Patrick e il poliziotto che l'aveva sostituita erano
entrati per sedare la rissa nel bar e si erano trovati davanti ad un regolamento di conti
tra bande. Patrick aveva fatto del suo meglio per mantenere gli animi tranquilli, ma alla
fine era stato colpito.
"Sì tutto ok." Si sforzò di dire dopo un tempo interminabile.
La pioggia cominciò a cadere copiosa sui berretti blu delle forze dell'ordine radunate nel parco come se si trattasse di un pic nic di mezza estate. Il comandante la congedò e le intimò, con quel tono di voce premuroso da nonno che a volte, nei momenti più duri, sapeva fare, di farsi una doccia e filare dritta a letto a riposare per almeno due giorni.
La stanza fu illuminata dalla lampada a stelo a fianco del divano. La musica celtica cominciò a diffondersi nell'aria mentre stremata dal trauma subito si sedeva sul bordo del letto per disfarsi delle scarpe e dei vestiti. L'acqua del bagno era tiepida al punto giusto e percorsa sulla superficie, da una schiuma leggera che le aderì alla nuca. Il cuore le riprese a battere nel petto a ritmi più controllati, finchè il rilassamento fu tale da permetterle persino di sonnecchiare.
Di cadaveri ne aveva visti fin troppi nella sua carriera. Drogati
annientati dall'ultima dose, prostitute percosse fino alla morte, vittime di rapine,
vittime di stupri. Non ci si faceva mai l'abitudine, ma quello che permetteva di dormire
la notte era sapere di aver fatto qualcosa. Magari si arrivava in ritardo un giorno, ma un
poliziotto, 365 giorni l'anno o quasi era sulle strade per impedire che succedessero
tragedie simili. Qualche volta si riusciva a scamparle, qualche volta si raccoglievano i
cocci. Ma se non ci fossero stati i poliziotti sarebbero andate anche peggio le cose.
Da brava poliziotta, dopo aver chiamato i rinforzi, aveva mentalmente fotografato i
dettagli della scena del crimine. Glielo avevano insegnato all'accademia. Allenarsi con
foto sulle riviste o dipinti, per poi verificare se, a distanza di giorni, si
rammentassero tutti i particolari.
Ora ripercorse all'indietro i suoi gesti, dal momento in cui erano
arrivati i colleghi, prima ancora quando aveva tirato quel maledetto laccio e infine molto
prima, all'inizio della serata, quando aveva aperto il libro per ricominciare a leggere da
dove aveva interrotto quella mattina. Aveva notato qualcuno? Glielo avevano chiesto i due
sbirri incaricati di interrogarla. Aveva visto qualcosa di insolito? Quante volte aveva
fatto quella stessa domanda a testimoni ignari che ricordavano a fatica la data del loro
compleanno. Si sforzavano sì di focalizzare l'attenzione su un lasso di tempo preciso per
fare bella figura, per non mostrarsi distratti fino al punto da non ricordare se avevano
incontrato un uomo con un cane o una donna barbuta. Ma il più delle volte chiedevano
scusa e mortificati sostenevano di "Non aver fatto caso" o di "Non
ricordare con precisione". Per un attimo si sentì nella loro stessa situazione, ma
lei aveva un vantaggio. Lei era stata allenata a ricordare, a fotografare una scena, un
momento, un volto.
Rivide la schiena della ragazza ondeggiare al ritmo delle falcate, rivide il suo volto
sorridente fare un cenno nella direzione di un uomo seduto su una panchina e poi
riprendere la corsa urtando un altro uomo, più giovane, che percorreva in senso opposto
il sentiero. Si era fermata, si era scusata e aveva ripreso a correre. Il giovane invece
si era fermato un attimo e poi aveva anch'esso ripreso a passeggiare verso il parcheggio.
Qualcosa però la turbò. Uno di quei dettagli insignificanti che spesso fanno andare su
tutte le furie i poliziotti. Aveva una camicia blu, portava un cappello rosso. Dettagli
che non servivano pressoché a nulla. Fece un ulteriore rewind della scena.
Occhiali da sole.
Ecco quello che non tornava. Occhiali da sole in una giornata con il
cielo coperto di nuvole? Quando già si avvicinava la sera?
Corrucciò la fronte, mentre nuvole di vapore le piroettavano intorno ai capelli, poi
decise che non era quello un dettaglio di tale importanza da giustificare una corsa verso
il telefono per comunicare gli sviluppi della faccenda al comandante. Glielo avrebbe
comunicato l'indomani, quando come ogni giorno durante quell'ultimo mese, si sarebbe
trascinata al lavoro con la mente piena di pensieri tristi.
La procedura del riconoscimento era forse uno degli aspetti più
dilanianti del suo mestiere. Si accompagnavano i familiari dietro al vetro, si chiedeva
loro di osservare i dettagli, i segni particolari e poi un tecnico dell'obitorio
spalancava la tenda e un cadavere giaceva sul tavolo autoptico. Spesso c'erano scene di
isteria, pianti convulsi, conati di vomito a volte, quando la vittima era in condizioni di
avanzato stato di decomposizione o aveva avuto una morte particolarmente violenta.
Quelli che le davano più da fare erano i cadaveri di morti annegati. Il suo stomaco non
voleva saperne di rimanere al suo posto davanti ad una vittima di una morte così atroce.
Se ritrovato in tempi brevi il cadavere presentava la tipica pelle d'oca e quell'orribile
fanghiglia schiumosa intorno alla bocca e al naso, testimone del tentativo, in extremis,
di riprendere a respirare nonostante l'acqua gli invadesse tutto l'albero bronchiale. Ma
se il cadavere veniva rinvenuto a distanza di qualche settimana, la macerazione cutanea
era tale da provocare spesso il distaccamento della cute dalla sua sede in corrispondenza
delle estremità. Se ti ritrovavi davanti agli occhi qualcuno che non aveva più, come si
diceva in gergo medico, calze e guanti epidermici, potevi essere sicuro che per almeno una
settimana il sonno non ti avrebbe neppure sfiorato.
Lei aveva avuto la sfortuna di assistere a tale stato cadaverico e da allora aveva giurato
che nessun caso di annegamento l'avrebbe più riguardata da vicino.
Il donnone alto e biondo aspettava fuori dalla stanzetta con il vetro, stringendo in mano
un kleenex mentre da dietro gli occhiali le scendevano lacrime copiose.
"Piangono sempre. "Pensò ". Ma tanto non credono che sia la persona da
loro conosciuta e amata. Solo quando aprono le tende il loro diventa dolore reale, spesso
sfociante in una angosciata disperazione.".
Quando la fecero accomodare si liberò degli occhiali e impugnò, in un atto di coraggio
che lei non avrebbe mai dimenticato, un paio di occhiali da vista. Con espressione
orgogliosa e fiera li indossò per poi sistemarsi, con le mani strette in grembo, davanti
a quella vetrina di morte.
L'espressione dal principio non fece trapelare nulla dei suoi sentimenti. Si limitava a
scorrere avanti e indietro lungo tutto il cadavere come se stesse esaminando cifre per un
bilancio aziendale. Poi si tolse quest'ultimo paio di occhiali e contemporaneamente
abbassò lo sguardo. Dalla bocca le uscì un flebile "Sì". Poi uscì dalla
stanza.
La jogger si chiamava Dora Pascal, aveva 25 anni. Tanti quanti lei, si ritrovò pensare.
La madre l'aveva identificata attraverso una piccola voglia di fragola al di sotto del
polpaccio.
Rimise gli incartamenti dentro la carpetta marrone con su scritto "caso 1267: parco
villa Forrester", depositò il rapporto nell'apposito raccoglitore all'ingresso del
distretto e si richiuse la porta alle spalle.
La giornata sarebbe stata a dir poco meravigliosa. Con quel cielo
terso, quel venticello tiepido e il profumo di fiori di bosco. Ma, come in un inquietante
deja vu, si ritrovava di nuovo in quel parco maledetto, che fino a poco tempo prima era
stato il suo rifugio, il suo luogo sicuro presso il quale tornare quando le cose mettevano
al peggio. Questa volta si trovava nell'acqua. Ne aveva visto la schiena arcuata emergere
in mezzo al laghetto un passante che portava a fare i bisogni il cane. Lei era stata
chiamata a partecipare al recupero del cadavere della giovane donna, anche se i superiori
conoscevano il suo rifiuto di trattare da vicino casi di annegamento. "Non è morte
per annegamento. È sommersione!" si giustificarono. Dal punto di vista medico
legale, erano due cose ben diverse. Si parlava di annegamento quando la morte era stata
provocata dall'acqua, si parlava di sommersione quando la vittima era stata uccisa con
altri mezzi e il cadavere occultato, o semplicemente gettato, come in quel caso,
nell'acqua.
La ragazza portava i pantaloncini da jogging, ed era quindi una sportiva, cosa che la
accomunava con la precedente vittima. Entrambe non erano state stuprate, ma ad entrambe
era stata praticata un'incisione con un oggetto appuntito ma non troppo affilato, che le
percorreva da sotto il seno fino all'altezza delle anche. I dettagli raccolti furono
sufficienti per elaborare un profilo: maschio, bianco, tra i 20 e i 40 anni, lavora
probabilmente di giorno, (aveva avuto tutto il tempo di notte di compiere gli efferati
assassini e poi ripulirsi dal sangue), è un assassino che agisce con modalità locale.
Quest'ultimo aspetto era legato al fatto che la stradina che conduceva al parco era
costantemente percorsa di motorini e biciclette, a qualsiasi ora del giorno e della notte,
da ragazzini che in bande scorrazzavano nelle sere d'estate in cerca di qualcosa da fare.
Un uomo coperto di sangue non sarebbe passato certo inosservato. Inoltre per raggiungere
la città vicina occorreva superare un casello autostradale, e il commesso avrebbe certo
notato quell'uomo che se ne andava a zonzo con i vestiti coperti da macchie rosse. Si
doveva quindi cercare un uomo che viveva da quelle parti, entro il raggio di quelle poche
miglia che distanziava la villa dall'autostrada. Era già qualcosa.
Le indagini cominciarono subito. Furono istituiti due gruppi: uno aveva
il compito di interrogare i casellanti per verificare che nessun uomo con le
caratteristiche descritte dal profilo, fosse passato per più volte attraverso il casello.
L'altro gruppo sondava la più probabile ipotesi dell'omicida locale. Lei faceva parte di
quest'ultimo gruppo di agenti. Innanzitutto si distribuirono lungo le stradine tutto
intorno al parco in modo che ciascuno potè interrogare tutti gli abitanti di una via. A
lei toccò la strada sterrata che univa alcuni casolari di campagna alla provinciale. La
prima famiglia si mostrò disposta a collaborare e molto disponibile. Possedevano quel
pezzo di terreno da più di cinque generazioni, due delle quali si trovavano sedute
intorno al tavolo del soggiorno dominato dal camino. Le due sorelle, sulla cinquantina, e
il padre, che oramai passava ampiamente l'ottantina, formavano un nucleo familiare rimasto
tale e quale per quasi mezzo secolo, da dopo la morte del fratello più piccolo, che ora
avrebbe avuto quarantacinque anni, come le confidarono.
Il secondo casolare aveva l'aspetto di una di quelle enormi case della pubblicità, con il
mulino che gira sopra al ruscelletto dietro alla casa e vasi traboccanti di gerani fino a
dove si avesse la forza di guardare. La donna che uscì dal portone marrone, un vero e
proprio monumento al buon vecchio albero da noce americano, era piccola e cordiale. La
fece accomodare e le offrì una fumante tazza di tè, accompagnata da biscotti
rigorosamente fatti in casa, che avevano un gusto così piacevole e invitante che non
potè fare a meno di assaggiarli. La donna era vedova, ma aveva un figlio, down, che
apparve in cima al pianerottolo della scala prima di vederla e fuggire di nuovo immerso
nelle piccole certezze di camera sua. La donna stiracchiò un sorriso e le chiese di
perdonare il ragazzo, era molto timido, cosa che sicuramente dipendeva oltre che dalla
menomazione, anche da una sua personale inclinazione. Lei fu di due pensieri se
interrogare anche il ragazzo o meno, poi decise che, se si sarebbe reso necessario un
interrogatorio lo avrebbe allestito con l'aiuto di uno psicologo onde evitare di
traumatizzare ulteriormente quel povero ragazzo. Per ora bastava così. Ringraziò della
collaborazione e della calorosa ospitalità e si incamminò a visitare l'ultima famiglia
della strada. La casa era notevolmente differente rispetto a quel monolito alla perfezione
visitato pochi minuti prima. Anzi pareva che le tegole del tetto volessero scivolarle in
testa da un momento all'altro. Ma l'uomo che le aprì sembrò cordiale e la fece
accomodare in un soggiorno non accogliente come il precedente ma sicuramente pulito. Disse
di chiamarsi Cristian, di avere 42 anni e di lavorare nel suo podere, insieme a qualche
operaio che assumeva nei periodi di maggiore lavoro, tutti i santi giorni dell'anno. Era
scapolo, le confessò quasi vantandosene con una strizzatina d'occhio. Lei gli confessò
sorridendo di non essere interessata, e lui sembrò considerare la cosa nella giusta
prospettiva. Come se il veterinario della zona gli avesse detto che il maiale in questione
era da sopprimere e lui stesse valutando se farne delle bistecche o delle salcicce.
Lasciò quest'ultima casa dirigendosi di nuovo verso le auto-pattuglie parcheggiate nel
parco, con in mano un blocco note con alcune pagine vergate di suo pugno ma che pensò non
dovessero contenere dettagli rilevanti per la risoluzione del caso.
A distanza di due settimane non era emerso ancora nulla dalle indagini. Gli addetti ai
lavori si chiedevano se si trattasse di un serial killer, che avrebbe colpito, magari tra
mesi, presso qualche altra zona del paese, spostandosi per non farsi braccare. Ma rimaneva
in sospeso la questione del movente. Un omicida seriale uccide per ragioni a carattere
sessuale, il più delle volte, ma le vittime non erano state nemmeno toccate e non c'erano
feticci dai quali poter intuire le motivazioni dell'uccisione di quelle due donne. Non
erano stati asportati organi, la morte era avvenuta per dissanguamento, in un caso e per
strangolamento nell'altro. Armi bianche quindi, che facevano pensare sicuramente ad un
omicidio seriale, ma senza nemmeno un movente sessuale era difficile stabilire contro chi
o cosa si stava combattendo.
Fino al giorno del ritrovamento del terzo cadavere.
Questa volta la scena del delitto era più cruenta, in quanto il cadavere era stato appeso
ad un albero, a testa in giù, con il macabro squarcio che lo percorreva come nei casi
precedenti. Questa volta però, accanto all'albero, fu rinvenuto un mozzicone di sigaretta
che fu sottoposto immediatamente all'esame del Dna.
Dall'esame della composizione della saliva saltò fuori il nome di un
pesticida. Era tempo di pesche, e chiunque lungo quella strada avrebbe potuto utilizzarlo
per salvaguardare le proprie colture dall'aggressione dei parassiti, ma il pesticida in
questione era di una marca difficilmente reperibile in commercio. Una traccia. Mentre
camminava con il rapporto dell'esame sul mozzicone di sigaretta, diretta verso l'ufficio
del comandante, revisionò mentalmente gli interrogatori svoltisi lungo la stradina
sterrata e concluse che soltanto l'uomo scapolo, in fondo alla carreggiata poteva avere
alberi di frutta o prodotti vegetali che abbisognavano di pesticidi. Nel primo casolare,
quello abitato dai tre anziani, non aveva notato colture di nessun tipo, solo galline
scorrazzanti per l'aia arsa dal caldo di quella primavera ormai già avanzata. Nel secondo
ci aveva trovato una donna con il figlio down, e al di là di vasi di gerani disposti in
ogni dove, non c'erano tracce di orti, alberi da frutta o serre. Solo nell'ultimo casolare
aveva visto frutta. Due alberi di pesche, sul retro, visti attraverso le finestre malconce
dell'ingresso.
Il comandante la ascoltò e convenì con lei che l'idea era buona. Gli agenti avrebbero
richiesto, ai casolari li intorno, di poter acquistare vegetali o frutta provenienti dalle
colture, poi l'esame dei residui chimici sulla buccia della frutta o sulla superficie di
insalata, piselli e carote, avrebbero sentenziato l'eventuale colpevolezza di uno dei
fattori.
Si ritrovò quindi lungo la stradina ghiaiata di poco tempo prima, con
in mano una capace borsa termica, mandata a reperire da un collega nel vicino
supermercato, e lo sguardo fisso sulla casa dall'aspetto trasandato in fondo alla via.
L'uomo fu nuovamente cordiale, tanto che le offrì, oltre alle pesche, qualche vaso di un
particolare tipo di gardenia che coltivava nella serra a sud del campo. La lasciò nella
casa, mentre armato di cappello di paglia e vasetti coi quali trasportare i fiori, si
incamminava oltre il campo coltivato. Si guardò intorno, cercando segnali di una
possibile mente omicida, ma trovo solo l'ambiente tranquillo e un po' spoglio di una casa
occupata da un contadino scapolo. La tromba delle scale cigolò, quando osservando
all'esterno cautamente, per controllare se l'uomo si trovasse ancora nella serra, salì
alla ricerca di ulteriori dettagli. In cima alla rampa tre porte davano sulle camere da
letto e nella stanza da bagno, stanze spoglie ma ordinate. S trovava in bagno quando udì
sopra alla sua testa una serie di strani rumori che la fece sobbalzare. Si spostò nel
corridoio e sollevò lo sguardo in direzione del rumore. Una botola sul soffitto indicava
la presenza di un sottotetto al quale si poteva accedere con una scala che sperava non
fosse troppo arrugginita. Da una delle camere registrò mentalmente la distanza tra serra
e uscio di casa. Poche centinaia di metri, sufficienti a lei per salire nel sottotetto,
dare una occhiata e poi rimettere tutto in ordine ritrovandosi poi nel soggiorno dove lui
l'aveva lasciata.
Il rumore della scala estratta dalla botola sembro echeggiare per molte miglia. Con un
piede sull'ultimo gradino cercò di abituare lo sguardo all'oscurità che regnava in
quell'ambiente. Ma dopo alcuni secondi, seppure riuscisse a riconoscere alcuni contorni,
la vista non si era ancora abituata. Optò quindi per la torretta che teneva sempre
attaccata al portachiavi. Illuminò una lunga parete contro la quale erano stati
accatastati mobili ricoperti da teli di cotone bianco. Infondo a questa fila, dietro
l'angolo, qualcosa illuminava una fetta di pavimento, proiettando luci ed ombre in quella
zona di soffitta. Si avvicinò cautamente. L'odore di stantio che emanavano i mobili le
diede il voltastomaco, mentre avanzava con la massima circospezione alla scoperta di
quella fonte luminosa. Una candela ormai consumata riversava sottili rivoli di cera sul
pavimento ed illuminava un angolo allestito come un altare sacrificale. Tutto intorno,
appese alle pareti con lunghe striscie di scotch, penzolavano foto e disegni di simboli
appartenenti, almeno così le sembrava, ad un qualche rito pagano. Le sembrò di
riconoscerne uno, rinvenuto tempo addietro nella casa di un uomo che si era reso
responsabile dello strangolamento di una collega di lavoro. Era una sorta di diavolo
seduto su uno stilizzato simbolo fallico. Arretrò, silenziosa, cominciando suo malgrado a
notare le note appuntate di fianco alle fotografie
"Gli uomini sono nati liberi di vivere nel proprio ambiente" recitava una
"se il tuo cuore dice che sarà bene, allora lo sarà!" ne proclamava un'altra.
L'ultima la colpì come un pugno in pancia. Era una frase vergata in lettere cubitali, al
centro di una croce formata dall'intrecciarsi di alcune istantanee. Ciascuna polaroid
riprendeva una vittima, la prima abbandonata nella radura, la seconda lasciata galleggiare
nel laghetto e la terza appesa a sanguinare sull'albero. La frase recitava "L'uomo
domina quattro elementi: la terra, l'acqua, l'aria e
", la lesse a voce alta,
per imprimersela meglio nella mente, poi osservò la quarta fotografia, che riprendeva una
donna con in mano un libro dalla copertina rigida di colore rosso, pacificamente
addormentata su un plaid multicolore. Alle spalle sentì un clic e insieme la voce
dell'uomo che con un sussurro le intimò "Il quarto elemento che l'uomo domina è il
fuoco". La luce che l'uomo aveva acceso dal corridoio sottostante illuminò i teli
bianchi, il pavimento e tutti gli altri oggetti accatastati nella soffitta. L'odore di
stantio non proveniva dagli oggetti stipati, ma da una patina di acquaragia che qualcuno
aveva distribuito praticamente ovunque in quella stanza. Per un attimo ne osservò le
macchie opalescenti che permeavano i muri. Con in mano una bottiglietta dello stesso
liquido, con il simbolo infiammabile ed il beccuccio ad estrazione, l'uomo sorrise di un
ghigno soddisfatto, poi lasciò cadere la bottiglia e il fiammifero appena acceso. Mentre
tutto intorno a lei avvampava con un'unica fiammata, e le carni cominciarono a infuocarsi
da sotto la divisa, udì ancora qualche parola
"Tu sei il fuoco! E io ti ho
dominato!"