Angelo della nebbia

La bianca astronave si avvicinò lentamente alla piccola collina verde, quindi iniziò una gradevole discesa molto prudente. "Armate una squadra e fatela uscire subito!", ordinò il capitano del vascello, ma mi raccomando: solo un rapido giro di ricognizione... non voglio perdere altri uomini inutilmente!". Il capitano in seconda trasmise l'ordine ai suoi subalterni e questi lo eseguirono alla lettera. Tutti avevano vivide nella mente le immagini dei loro compagni che premevano contro gli oblò chiusi della nave in decollo, mentre dei lunghi tentacoli viola li facevano a pezzi. Quella era stata l'ultima volta che qualcuno non aveva eseguito minuziosamente gli ordini del capitano. Questi era un uomo sulla quarantina, alto, robusto e silenzioso, tranne quando dettava ordini. Fin dalla sua nascita aveva sempre avuto la consapevolezza, forse il presentimento, di dover lasciare la propria impronta sul mondo. I suoi comandi talvolta potevano sembrare strani o addirittura assurdi ma spesso la sua imprevedibilità era stata l'arma vincente. A quanto si sapeva era già da ventitre anni (periodo assai lungo per una media di sopravvivenza di circa cinque anni) al servizio della Compagnia d'Esplorazione Federale. Con quella stessa nave, la White Spear, avevano già portato a termine tredici missioni esplorative e sei di soccorso, perdendo solamente dodici uomini... tutti nell'ultima. Tutto sommato anche quella missione era stato un successo dal punto di vista della Federazione che aveva potuto dichiarare un altro pianeta "pulito". Chiaramente questo non era vero ma la Federazione doveva rispettare scadenze ben precise ed il Consiglio Generale Unito non ammetteva ritardi. Non parliamo poi dell'opinione pubblica, che si preferiva sempre tenere allo scuro.

La White Spear dominava ora un'ampia vallata boscosa, o almeno così indicavano i sonar di bordo, dato che ad occhio nudo non era possibile fendere la pesante cortina di nebbia. La squadra d'esplorazione tardava a tornare e l'inquietudine a bordo iniziava già a farsi sentire. "Come è possibile che dieci uomini siano scomparsi nel nulla?" urlò il capitano dopo aver aspettato al punto di raccolta per ben un ora. Dei trentaquattro membri dell'equipaggio nessuno riuscì a convincersi che tutto andasse per il meglio e che la squadra sarebbe tornata presto. La voce che ruppe il silenzio fu quella del capitano: "Tenente, assuma il comando dell'astronave. Se non torno entro tre ore faccia decollare la nave e comunichi alla base orbitante che questo pianeta è infetto". Detto questo prese con sè tre uomini e scomparve nella nebbia. Tutti e quattro avevano mitragliatori requiem e cannoni pulsar, inoltre la tuta garantiva massima protezione da qualsiasi agente venefico presente nell'aria. "State tutti dietro di me" ordinò. Proseguirono per circa un'ora senza incontrare nessuno; visibilità sette metri. Il radar tattico, che captava ì segnali emessi dai trasmettitori delle tute, indicava che i membri dispersi dovevano trovarsi ad appena un chilometro in direzione nord. Proseguirono. Passarono circa trenta minuti prima che i quattro uomini raggiungessero i compagni.
Tutti sapevano di avere a disposizione dieci minuti massimo; passati questi non avrebbero fatto più in tempo a tornare indietro. Tuttavia quando arrivarono nella piccola radura immersa nella vegetazione, questo dettaglio perse tutta la sua importanza: a terra in mezzo allo spiazzo c'erano tutti gli uomini dispersi. Inizialmente nessuno fu tanto forte da opporsi alla terribile certezza che già da tempo si era insinuata strisciando nelle loro menti; forse solo il capitano non aveva ancora perso il controllo della situazione.
Cautamente si avvicinò al primo di quelli, che come tutti gli altri era seduto a terra in una posizione stranamente anomala. Grattando con l'unghia il grilletto del mitragliatore requiem, il capitano compì un breve giro attorno all'uomo... era vivo. Questi era accasciato a terra con il fucile sulle ginocchia, e guardava un punto imprecisato nella nebbia. Il capitano cercò di seguire lo sguardo del soldato, ma non vide nulla di particolare: solo nebbia, nebbia e nient'altro che nebbia. La bocca dell'uomo era aperta come quella di un bambino stupito, e per quanto sembri strano il capitano prese alquanto sul serio questa considerazione. Come quello, tutti gli altri nove membri del gruppo esplorativo giacevano inerti a fissare la nebbia in silenzio. Silenzio... silenzio e nebbia... null'altro. Qualcosa scattò nella mente del capitano: la nebbia!. Alzò lo sguardo sui suoi tre compagni e quello che vide lo fece impallidire: uno di questi era seduto a terra con lo sguardo fisso come tutti gli altri. Un altro era ancora in piedi ma aveva già gli occhi stranamente persi nel vuoto. Probabilmente la forza di volontà del soldato aveva già perso la propria decisiva, ultima battaglia contro un nemico invisibile e penetrante: la nebbia. Il terzo uomo era in piedi, che si guardava intorno con uno sguardo incredulo che preoccupò subito il capitano: avrebbe perso il controllo di sé tra pochissimo. In pochi secondi gli fu vicino: "dobbiamo andarcene!!, mancano solo pochi minuti e..." in quel momento guardò incredulo l'orologio atomico: erano passati trentatre minuti esatti. "Dobbiamo andare!! E' la nebbia che ha ridotto così gli altri!! Dobbiamo..." solo allora si accorse che il soldato non lo stava ascoltando più. Questo aveva reagito alla nebbia in modo diverso dagli altri, infatti in quel momento imbracciò il mitragliatore requiem e in preda ad una frenesia incomprensibile incominciò a sparare contro la nebbia. Svuotò in qualche secondo trecentosessantatre colpi, quindi ricaricò l'arma e continuò nel suo folle tentativo di difesa da quello che riconosceva come un nemico. Mentre i bossoli saltavano velocemente via dal requiem il suo autocontrollo se ne andava con essi. "Via!!, vai via!! lasciami!!!" gridava. Il capitano iniziò a correre, lasciandosi alle spalle il rumore ovattato dei colpi. Rifece il tragitto al contrario correndo a perdifiato lungo il sentiero che avevano tracciato all'andata. Si perse tuttavia varie volte e fu per questo che impiegò, nonostante corresse, circa un'ora. La nebbia era tutt'intorno a lui, l'avvolgeva, lo riscaldava e lo invitava ad unirsi ad essa. Compì uno sforzo non indifferente per riuscire a non farsi ipnotizzare come i compagni. Quando finalmente arrivò al punto di raccolta, dove la White Spear era atterrata solo cinque ore prima, tutte le sue forze erano esaurite. Nella radura c'era un rumore assordante, e la nebbia vorticava freneticamente. Cercò con gli occhi la propria astronave ma le sue energie stavano cedendo il passo alla nebbia, perciò cadde a terra stremato. Chiuse un attimo gli occhi e quando lì riaprì si trovò di fronte lo stivale di un soldato della Federazione. Alzò faticosamente lo sguardo e riconobbe il tenente, suo comandante in seconda. Questi lo guardò dall'alto in basso con disprezzo misto a pietà. '"Avevi detto tre ore... ora è troppo tardi. Non ce l'avere con me: siamo soldati". Detto questo si girò lasciando l'uomo disteso a terra ed incapace di proferire parola. Una delle ultime cose che il comandante sentì fu la voce del tenente: "le tre ore sono passate ed il comandante non è tornato: andiamo via. D'ora in poi prenderò io il comando del vascello". Gli uomini evidentemente obbedirono ignari: era stato proprio lui ad insegnargli che gli ordini di un superiore vanno rispettati, soprattutto quelli di un Comandante di Marina. La White Spear si sollevò lentamente, seminascosta dalla nebbia, quindi prese il volo e scomparve. L'uomo rimase a terra a fissare la nebbia, bianca ed accogliente. Nel turbinio di quell'indefinito vide un volto femminile, un volto bellissimo che gli ricordò quello di sua madre ed insieme quello della sua donna. Rimase così a fissare quel viso angelico che lo chiamava dolcemente mentre un immobile sorriso compariva lentamente sulla propria bocca. L'angelo gli prese il capo tra le mani e lo baciò, poi lo strinse a sé accarezzandolo… era a casa.

Teofilatto Fontana