DEDICO QUESTO RACCONTO
A TUTTI COLORO
CHE IL DESTINO HANNO SFIDATO
ALLE CONTROVERSIE HANNO RISO
ALLE INGIUSTIZIE E AGLI AFFRONTI
HANNO DICHIARATO BATTAGLIA
A VOI VA LA MIA FRASE
"IN QUESTO PAZZO CIRCO
NOI NON SIAMO DEI NANI
MA DEGLI ACROBATI"
Nacqui in
un paese vicino Roma di nome Maccarese. La mia famiglia non era ricca e neanche nobile.
Mio padre era un restauratore di mobili, come suo padre prima di lui e come lo sarei
dovuto divenire io.
Mia madre trascorreva i suoi giorni in casa assistendo noi.
Ero il secondo di sei figli e trascorsi l'infanzia nella bottega della mia famiglia.
Crebbi tra tavoli in massello da lucidare, tra metri di velluto e raso, poltrone da
sellare, specchi rotti da riparare, credenze con le cerniere da cambiare, con l'odore
dello spirito sempre sopra gli indumenti così sporchi che si reggevano in piedi da soli.
Molto spesso, dopo che mio padre aveva finito un lavoro non veniva pagato in soldi, ma con
i viveri dei paesani, erano tutti amici di mio padre, e lui, a sua volta, era amico di
tutti, fu sempre rispettato e ben voluto, ed io ero fiero di essere suo figlio.
Ma, un bel giorno, mentre ero seduto sul suo tavolo di lavoro vicino la morsa con una
pialla in mano, entrò un monsignore, che fece una proposta di lavoro a mio padre, non
seguii molto bene il discorso ma afferrai comunque il concetto "mio padre doveva
lavorare per un periodo di tempo per i musei vaticani". La sera lo disse a mia madre
e festeggiammo con i pochi soldi del babbo. Il giorno dopo partimmo per un sopralluogo.
Forse per la gioia che mi aveva trasmesso mio padre, forse per la bellezza che si poteva
vedere in giro o forse per le emozioni che emanavano i quadri, io mi innamorai di quel
luogo. E così mi avvicinai a Dio. Quando non ero al lavoro con mio padre ero in chiesa
dal sacerdote a parlare e meditare sulla magnificenza di Dio e di tutte le cose che aveva
creato, e pensiero dopo pensiero, parola dopo parola presi la decisione di farmi prete.
All'inizio la mia famiglia non fu felice, ma con il tempo mi capirono, imparai gli studi
di latino, greco, sapevo quattro lingue e divenni missionario. Dopo un pò tornai per
divenire ciò che sono ora, uno psicologo. E fu per questo motivo che conobbi Andrea
D'Antonio. Ero in visita al manicomio criminale di Roma, camminavo tra i pazienti meno
pericolosi cercando di vedere se i miei studi fino a quel momento erano valsi a qualcosa.
La guardia mi era a fianco, ma non parlavamo, perché io osservavo i pazienti e lui
osservava la mia persona
- Padre, Padre! -
La voce veniva dalla mia destra, fino a quel momento avevo visto ed ero stato visto da
dozzine e dozzine di pazienti, ma nessuno mi aveva chiamato, lui fu il primo. Mi avvicinai
verso di lui che era seduto su una sedia da solo, e gli dissi:
- Dimmi figliolo perché mi hai chiamato? -
- Padre mi perdoni perché ho peccato -
L'uomo aveva forse trentacinque anni, capelli neri corti e gli occhi azzurri, era vestito
con un pigiama da ospedale bianco di tessuto leggero a maniche lunghe, era senza calze con
le ciabatte scure. Le sue braccia erano strette al ventre e mentre continuava a ondulare
leggermente avanti e in dietro col busto, i suoi occhi guardavano fisso un punto.
- Vuoi confessarti figliolo -
- Sì, Padre -
- Bene , io sono qui, comincia pure -
- Non so da dove iniziare -
Presi una sedia e mi misi seduto al suo fianco guardando in direzione contraria da dove
era lui.
- Comincia dall'inizio -
L'uomo iniziò:
- Ho trent'anni, sono nato a Roma, e mi chiamo Andrea D'Antonio. All'età di dodici anni
mio padre mi disse che dovevamo partire per Milano, vissi in quella città per tre anni,
perché a quindici ci trasferimmo a Palermo. Iniziai a una nuova vita, mi fidanzai con la
mia prima ragazza Annarita, ma non durò molto. Poi fu la volta di Ofelia, bellissima
ragazza ma il suo nome la perseguitava, rendendola sempre nervosa alle battute degli
amici, e rendendomi nervoso, ma anche con lei finì.
Passarono due anni e cambiai di nuovo città ed andai a Bolzano, non più amici, gente
nuova posto nuovo, ed ogni volta una nuova ragazza, altri due anni, e fu la volta di Bari,
ogni due anni cambiavo tutto, ricominciando di nuovo la mia nuova vita, conoscendo nuove
città, Ancona, Cagliari, L'Aquila, Genova.
Ma un bel giorno mi ritrovai a entrare tra le mura della mia città nativa, Roma.
Il punto da dove ero partito, era come se avessi fatto il gran viaggio di un boomerang,
che viene lanciato, prende la sua curvatura, per poi tornare tra le mani di chi lo
possedeva in precedenza.
Fu qui a Roma che ebbi la mia ultima ragazza, Cristina.
Ormai era un anno che ero tornato, e alcune delle vecchie amicizie le riavevo contattate,
ma me ne ero fatto delle altre nuove, e un bel giorno mentre andavo a casa di Ettore,
riconobbi una sua amica, o una mia amica, che avevo cercato, e non avevo trovato, e
ultimamente usciva con lui.
Era Cristina, già ci conoscevamo, quando eravamo piccoli, andavamo alle elementari
insieme, poi durante le vacanze stavamo sempre insieme, eravamo come due fidanzatini, che
si tenevano per mano, e di tanto in tanto si scambiano qualche bacietto, lei mi portava
qualche dolcetto che racimolava per casa, ed io le portavo le rose del vicino, che
quotidianamente rubavo, ma il vicino lo sapeva, e quando m'incontrava per strada,
sorrideva.
Ci incontravamo sotto le caldaie, era una specie di grande cantina, con una grande caldaia
dentro, nessuno ci vedeva, ma noi sentivamo tutto, suo padre quando la chiamava, e mia
madre quando faceva lo stesso, e spesso facevamo finta di non sentire, fino al quarto o
quinto richiamo.
Un giorno lo ricordo bene come se fosse ieri, ero con lei sotto le caldaie, mi stava
raccontando la vita e le opere di alcuni cantanti, a me, non interessava, ma lasciavo che
lei parlasse, eravamo sdraiati su di una morbida coperta, uno accanto all'altro, la
coperta l'avevo presa io dalla mia cantina, e fu lì, mentre io ascoltavo lei, con le
braccia incrociate sotto la testa, che si voltò sopra di me, io la strinsi, e lei mi
cominciò a baciare, io feci lo stesso, le toccai il suo piccolo e sodo seno, e lei fece
un sospiro, la guardai per vedere se avevo fatto un'azione sbagliata, ma non era così, e
continuai, baciandole il collo, il ventre, i capezzoli, per poi risalire come un viaggio
di ritorno, e fu mentre le mordicchiavo il lobo dell'orecchio che cominciai a slacciarle i
bottoni dei jeans, con molta calma, controllandomi, e sempre con calma e delicatezza, le
misi una mano nelle sue mutande, per sentire, il suo pube, da lì la discesa fu breve, e
cominciai a muovere il mio dito sul suo clitoride, stavo andando bene, lei apri
leggermente le labbra, e il suo respiro divenne più intenso, i suoi occhi erano chiusi, e
le sue gambe si erano divaricate, il dito si inumidì, e da lì a poco si inumidì tutta
la mano, e lei mi fermò, i suoi occhi erano colmi di gioia, e accarezzandomi il collo, mi
diete un bacio, nessuno mai mi aveva spiegato cosa dovessi fare in quei momenti, e da quel
giorno, capii che per certe cose, nessuno doveva sapere spiegazioni, perché venivano da
sè.
La settimana entrante, non la vidi, lei era malata, una cosa normale, aveva preso il
morbillo, ma non la vidi più, perché partimmo a sorpresa un bel giorno, ed io non ebbi
il tempo di salutarla, andai a Milano, e non la rividi più, finche non la rincontrai da
Ettore.
In quel momento tra noi non ci fu nulla, ma poi con il passare del tempo cominciammo a
frequentarci, e cominciammo a rivangare i ricordi del passato, che anche lei, aveva
gelosamente custodito nel cuore.
Poi decidemmo di fare la cosa che in passato in quel locale caldaie non facemmo, ossia di
fidanzarci, tra noi la storia era un pò fuori del comune, entrambi avevamo paura, o
terrore di cominciare quella relazione, come se uno strano sesto senso ci consigliasse di
evitarlo.
Che ironica che è la vita, fu il primo, vero, unico e solo amore.
Ma lei per me, fu anche l'ultimo vero, unico e solo amore.
Cominciammo quasi per gioco ed il gioco è bello quando dura poco, e con questo concetto,
decidemmo di fare le cose un pò più serie, e andammo a convivere insieme a casa di lei.
Mia madre e mio padre non erano d'accordo, e decisero di cambiare nuovamente città,
ricordo bene quella nostra ultima litigata in casa, erano decisi a tenermi con loro, non
volevano assolutamente che io me ne andassi, al tal punto che la sera in qui dovevo andare
via, mi nascosero le valigie, il giorno dopo mi bucarono le ruote della macchina, e cose
simili, che possono rallentare una persona, ma non fermarla.
E una bella alba, mentre il giorno sprigionava come delle mani con delle lunghe dita i
suoi raggi di sole, scappai di nascosto, come un amante dopo una notte di sesso con una
donna che non vorrà mai più rivedere.
Con quel gesto, ero riuscito a tagliare quel cordone ombelicale che mia madre non aveva
mai voluto tagliare, ma irrobustire.
Ricordo ancora il primo giorno che mi trasferii su da lei, la sua casa era grande circa
settanta metri quadrati, con tre stanze, un piccolo corridoio, cucina e bagno, viveva sola
da anni, e come si poteva notare in giro, mancava il tocco di un uomo.
Sì, quelle piccole cose che fanno notare la presenza di un uomo, come il suo disordine
con le scarpe, o la borsa degli arnesi, il rasoio in bagno, il dopobarba, il cappello
sopra il porta abiti al corridoio, o il porta cravatte in camera da letto, in parole
povere le cose che fanno capire la presenza di un uomo in casa.
Mi fece vedere tutta la casa, che le sembrerà strano padre, ma non avevo mai visto, non
eravamo mai andati su da lei per tutto il tempo che ci frequentammo, i nostri vizi
sessuali li sfogavamo in auto, o su di un prato, o su una spiaggia, ma non bramai mai
andare su da lei, fino a quel momento, cominciò con il salone, bello, con il lampadario a
gocce di cristallo, i mobili laccati neri, e qualche soprammobile, come foto, e statuette,
una tavolo al centro, ed un tappeto sotto.
Poi mi mostrò come la chiamava lei, la stanza degli ospiti, con un letto singolo, un
comodino, una lampada per la sera, e delle mensole con dei libri di vario genere.
Il bagno, e poi la cucina, e per ultima la camera da letto, con un gran lettone, con il
piumone bianco, e invitante, un gran armadio in radica di noce, con i sportelli lavorati
in rilievo, due comodini con la stessa lavorazione, un gran comò sotto lo specchio, e un
lampadario di ceramica, con delle foglie in rilievo.
Si voltò verso di me, mi mise le braccia intorno al collo, e baciandomi mi condusse sul
suo lettone, dove avremmo fatto l'amore dopo pochi minuti di effusioni passionevoli.
Trascorsero tre settimane, io andavo al mio lavoro, e lei andava al suo, tutto trascorreva
liscio come l'olio, come si sol dire, ma una sera che non riuscivo a prendere sonno, notai
una cosa molto, molto strana.
Ero nel letto che guardavo il soffitto, la sveglia sul comodino che continuava a farmi
notare che il tempo andava avanti, e io, non riuscivo a prendere sonno.
Non volevo svegliarla, ma ad un certo punto, lei si svegliò.
"Scusami non volevo svegliarti, ma stranamente questa sera non riesco a prendere
sonno"
Ma lei, non mi curò minimamente.
Si alzò, e si affacciò alla finestra senza aprire i vetri, si muoveva molto lentamente,
aprì l'armadio, prese un cappello e se lo mise in testa, io sorrisi, e le chiesi se era
il cappello della notte, era una battuta, ma lei non rispose, e come prima, non mi curò
minimamente.
Cominciò a camminare per la stanza, si inchinò sul pavimento e fece la mossa di colei
che stava cogliendo un fiore, poi lo annusò forte, e lo gettò, si strinse le braccia al
petto e roteò un pò di volte su se stessa.
La chiamai un pò di volte, ma ella continuò a camminare per la stanza, mi alzai anch'io
e mi misi di fronte a lei, ma non mi vide, mi superò senza vedermi, per lei in quel
istante potevo essere un qualsiasi ostacolo, come una colonna, un albero, o una fermata
dell'autobus.
Dopo una ventina di minuti che girovagava compiendo questi gesti inconsulti ripose il
cappello nell'armadio e si rimise nel letto.
Io rientrai sotto le lenzuola, e pensai che stava sognando ad occhi aperti, come i
sonnambuli.
Il giorno dopo avrei dovuto dirglielo, o perlomeno chiedergli delle spiegazioni.
Al mattino seguente prima che lei uscisse per andare a lavoro, gli posi un pò di domande,
ero sul vago, tipo:
che hai sognato sta notte?
hai mai fatto sogni tanto reali da sembrare veri?
mai stata sonnambula?
E domande del genere, e quando lei mi chiese perché tutte queste domande gli risposi
"che un mio collega di lavoro aveva dei problemi con la moglie, e io cercavo di
aiutarlo".
Poi il tempo fu a mio favore, arrivò l'ora che lei doveva uscire per andare a lavoro.
Rimasi solo di fronte al mio caffè sul tavolo della cucina, a pensare se era una cosa di
cui preoccuparsi o no, e dopo una lunga riflessione, optai per la seconda risposta, non
era una cosa di cui preoccuparsi.
E con questo concetto, se ne scordò, fino alla volta successiva.
Era notte fonda, lei si alzò di nuovo come la volta precedente, ma questa volta si vestì
e uscì di casa, ed arrivò fino all'androne delle scale dove si trovava una fontana, con
un bambino che versava l'acqua da una grossa anfora, si mise seduta sul ciglio della
vasca, passò delicatamente la mano nell'acqua ed i pesci si mossero, io ero vicino a lei,
ma per il suo punto di vista era sola, poi si alzò, e se ne tornò nel suo letto, erano
passati sessanta minuti.
Non potevo dire che non mi stavo preoccupando, perché sarei un bugiardo, non potevo
lasciare che la cosa fosse normale, perché non lo era, di conseguenza il giorno dopo
andai a parlare con il mio dottore, ed egli mi disse che era una sonnambula, e di non
svegliarla assolutamente.
Non sapevo più cosa fare, da quella notte cominciai a dormire preoccupato, ma a lei non
dissi nulla, perché non volevo dirle qualcosa che avrebbe potuto turbarla od offenderla,
i suoi comportamenti erano normali, io invece carente di sonno, e di riposo, cominciavo a
divenire nervoso, stanco, un paio di volte mi svegliai e lei non c'era, e la cosa più
brutta è che non sapevo dove cercarla, se cercarla, o se le potesse essere capitato un
incidente, come era brutta l'attesa per il suo rientro, ma ancora più brutta era
l'ipotesi che le potesse essere successo qualcosa.
Ma dopo poche sere, lei si rialzò nel cuore delle tenebre, era l'una di notte credo,
uscì di casa ma solo dopo essersi truccata, vestita, ed aver indossato una parrucca
castana ed un paio di lenti castane.
La seguii quella sera, e lei entrò in un pub, il suo comportamento era disinvolto, si
mise seduta ad un tavolo dove vi erano altri due uomini, io mi misi seduto al bancone,
ordinai una Ceres, e la guardai.
Veniva baciata sul collo da uno dei due, mentre l'altro le accarezzava la mano, il nervoso
mi fece bruciare lo stomaco, ma non potevo fare nulla, lei sorrideva, i due la toccavano,
e lei era contenta, uno cominciò a baciarle il lobo dell'orecchio, e l'altro si alzò ed
andò al bagno, io andai in bagno.
- Puoi dire a Cristina che la saluta un suo amico -
- A chi? -
- A Cristina, la donna seduta al tuo tavolo -
- Cristina? Ma quella è Eneitra, ed è l'oggetto più usato del pub, sono un pò di sere
che viene qui e non è mai tornata in bianco a casa. Quella è veramente una vacca, se
vuoi domani provaci, se ci sai fare la darà anche a te, l'ha data a tutti -
Mi sorrise ed uscì dal bagno, io non uscii, andai ad urinare.
Quando ebbi finito, sentii la voce di Cristina che parlava e rideva, aprii poco la porta,
lei non mi vide, ma io sì, era dentro il gabinetto di fronte al mio con i due compagni
della serata, si stava spogliando, e i due accompagnatori stavano facendo lo stesso. La
sentii parlare in modo volgare dei loro peni, ero seduto in gabinetto e non volevo uscire,
mi stavo stringendo il labbro inferiore, mentre una lacrima usciva dal mio occhio sinistro
e pensavo alla mia Cristina e a cosa stava succedendo.
Perché si era ridotta cosi?
Non era semplice sonnambulismo, un sonnambulo non va in luoghi sconosciuti, non fa cose
così depravate, poi udii una frase, era lei che rispondeva alla domanda di uno di loro.
- Tutti e due? Perché no, ma fai piano, perché dove lo stai mettendo sono ancora vergine
-
E quando sentii il suo gemito aprii la porta, corsi fuori dal pub senza farmi vedere,
piangendo e gridando come un pazzo.
Una volta uscito mi fermai dopo un centinaio di metri, mi misi tra due auto parcheggiate a
rigurgitare, dopo di che, mi sedetti ad un lato del marciapiede e attesi che lei che
uscisse.
Me ne andai a casa e mi misi a letto.
Stava albeggiando quando tornò a casa, si struccò, si spogliò e si mise a letto, dopo
un quarto d'ora suonò la sveglia, si alzò ed andò a preparare il caffè per me, e la
colazione per lei.
Era riposata, io ero distrutto.
Andai dal dottore per dirgli le ultime novità, e mentre ero in sala d'attesa presi un
quotidiano con le ultime notizie, e sopra vi era scritto:
Trovati due corpi non ancora identificati in un campo.
Ignota ancora la causa dell'uccisione.
Si presume per passione, la polizia segue le tracce dell'assassina.
I miei occhi si sgranarono quando vidi le loro foto, erano gli uomini della notte prima.
Chiusi il giornale e pensai, "è stata lei, come ha potuto, ed ora cosa faccio? Non
posso parlarne con nessuno, neanche con il dottore, riferirà tutto alla polizia e mi
porteranno via la mia Cristina, devo andare via, e non devo fare vedere che so qualcosa.
Scesi giù per strada, cominciai a camminare freneticamente, mi fermai, e mi guardai
intorno, cominciai a camminare di nuovo, osservavo le vetrine per non destare sospetto, ma
da chi poi non sapevo, camminai fino al parco, e lì mi sedetti su di una panchina.
"Cristina, perché l' hai fatto?" continuavo a chiedermi, e lacrimavo guardando
il lago. Una bimba si fermò di fronte a me, stava mangiando un gelato, gli sorrisi, lei
mi chiese perché piangevo, io gli risposi "moscerini negli occhi", poi si
allontanò di corsa e andò dalla sua mamma che stava parlando con le amiche, mi
guardarono, mi sentii osservato, e per paura di destare sospetti, me ne andai, senza una
meta, senza un idea di dove stavo andando. Mi tornò alla mente il volto di mia madre
quando diceva di non andare via da casa, ricordai il primo giorno a casa di Cristina,
l'amore sul suo lettone, continuavo a camminare, e deambulavo insospettito. Incontrai un
barbone che mi chiese l'elemosina, credetti che fosse un agente travestito, lo guardai con
sospetto, e mi accorsi di essere in un covo di barboni. Non so precisamente come feci, ma
ero entrato sotto la metropolitana, i loro cartoni mi stavano sotto i piedi, le loro mani
cominciarono a toccarmi ripetutamente chiedendomi aiuto, cominciai a scalciare e urlare
per fuggire da lì, ma la metro si fermò, e la gente scese, io per fuggire urtai un uomo
che finì sulle rotaie mentre il vagone ripartiva.
Tutti gridarono, io no, rimasi lì in piedi che piangevo e pensavo a Cristina, la mia
futura sposa che sul letto sporca di sangue giaceva e intanto cantavo:
Un elefante si dondolava
Sopra il filo di una ragnatela
E ritenendo la cosa interessante
Andò a chiamare un altro elefante
Due elefanti si dondolavano
Sopra il filo di una ragnatela
E ritenendo la cosa interessante
Andarono a chiamare un altro elefante ...
e via dicendo. La polizia mi arrestò in quel momento
accusandomi di omicidio colposo.
Credo di essere stato ricoverato qui per un forte esaurimento mentale. Ma padre giuro sul
mio Dio che non dirò mai a nessuno la storia di Cristina, è un segreto che resterà tra
noi, altrimenti l'arresteranno, ed io l'amo più di ogni altra cosa al mondo, altrimenti
non sarei qui per lei e non riuscirei a vivere se solo mi lasciasse perché so, che quando
io uscirò di qui lei mi starà aspettando a casa nostra, mi preparerà il caffè mentre
prepara la colazione per lei prima di andare a lavoro.
Ed ora padre mi assolva per i miei peccati -
Il prete lo guardò, e con le mani disegnò una croce dicendo:
- Ego te absolvo in nomine padre et filii et spiritus sanctis amen -
Il prete si alzò e mentre si stava allontanando sentì la voce di Andrea che canticchiava
di nuovo quella canzone:
Un elefante si dondolava
Sopra il filo di una ragnatela
E ritenendo la cosa interessante
Andò a chiamare un altro elefante
Due elefanti si dondolavano
Sopra il filo di una ragnatela
E ritenendo la cosa interessante
Andarono a chiamare un altro elefante.
Lo guardò oscillare con il suo busto, ed il suo sguardo che fissava il
vuoto, mentre lo guardava si avvicinò un dottore, cominciarono a camminare verso l'uscita
e il dottore gli disse:
- Padre ho visto che stava parlando con il paziente D'Antonio, lo conosceva? -
- No, si stava confessando -
- Ah, e le ha detto qualcosa di interessante? -
- Dottore, sa che sono tenuto a rispettare il segreto religioso, e non posso parlare -
- Le ha detto perché è stato ricoverato qui? -
- Esaurimento -
- Esaurimento? -
Rispose sorridendo il dottore, e poi prosegui:
- No, quell'uomo soffre di doppia identità, dopo aver assassinato due uomini, una bella
notte ha ucciso la moglie nel sonno, squartandola dal ventre alla gola, poi ancora con
alcune macchie di sangue indosso è uscito lasciando la porta di casa aperta, la vicina ha
chiamato la polizia, ma purtroppo è stato arrestato solo quando è arrivato alla metro,
dopo aver ucciso freddamente una bambina con la madre, e una decina di barboni. È uno dei
pochi casi conosciuti di doppia identità -
Il prete si voltò, fissò le spalle di Andrea, che continuava ad oscillare cantando la
canzoncina.