La scritta
"buon Natale" verga sanguigna i cancelletti delle bianche villette a schiera
sepolte dalla neve. Le case svaniscono svelte, una dietro l'altra. Nel buio paiono carta
velina che sventola e poi si straccia in tanti filamenti luminosi. Madidi di luce, pioppi
inghirlandati si fondono sul cofano lucente dell'auto uno nell'altro restituendo
un'ininterrotta pennellata densa e abbagliante.
Dai minuscoli giardini brillano a intermittenza alberelli natalizi, che nel buio attonito
sorgono come roventi diamanti marziani. Il riverbero del circuito luminoso sulla neve
disegna sterminate dune lunari, infiniti sudari che abbracciano le case fin sulla soglia,
in un silenzioso e gelido abbraccio. Ombre domestiche galleggiano nell'acquario mite di
una finestra, l'occhio buono della notte. E' quando decelero, quando stacco il piede
incollato al pedale che il paesaggio inizia a mutare, svelando la sua reale, intima
natura.
L'automobile ora procede a passo d'uomo e l'immagine torna nuovamente a fuoco, le linee si
slacciano dalla fredda compressione della velocità, i palazzi si riassestano in geometrie
tozze. Svanisce l'ebbrezza della fuga. Non ho il coraggio di guardare nello specchietto
retrovisore. Eppure ne sono certo, se solo alzassi gli occhi verso quel vacuo pezzo di
vetro, seduta nel sedile posteriore riaffiorerebbe la sua sagoma composta, le mani
conserte, perché lei è là, seduta, non mi ha abbandonato.
Ho percorso tanti chilometri, ho imboccato le stradine più tormentate, la fitta
boscaglia, poi curve a gomito inerpicandomi nelle valli e montagne più desolate, infine
la lunga striscia nera dell'autostrada lanciato a folle corsa. Volevo sfiancarla, vederla
rimpicciolire nell'oscurità, dietro la fosforescenza dell'ultimo cartello stradale,
strepitare, decomporsi come parti di un pupazzo, le dita delle mani avvinghiate alla
portiera, infine spezzarsi. Volevo che quel corpo rantolasse come uno straccio, si
lacerasse contro il guardrail. E invece no, l'angoscia è ancora con me, e non mi
abbandonerà, finchè non riesumerò tutto, per intero il ricordo tremendo che, piano
piano riaffiora, preme sotto la terra, raschia con le unghie, soffia, sbuffa, inghiotte
piccole spirali di frane, seppellito invano dalla memoria
Quando parcheggio la macchina, non riesco più a respirare; mi accerto immediatamente che
la sicura della portiera sia abbassata. Sono davanti al numero civico 22 di via Giorgio
Paglia, la mia vecchia strada.
L'immagine ritorna ora, nitida, un groppo alla gola si forma, esattamente come quindici
anni fa. Nello specchietto retrovisore svanisce il volto adulto segnato dalla barba, ogni
certezza, le rughe si distendono assorbite dalla pelle, i capelli diradati si
riafflosciano gonfi sulla fronte, riemerge il mio viso latteo e imberbe, gli occhi vacui,
paralizzati da una paura infantile che ben conosco.
I palazzi non sono più eterei giochi di luce, ritagli sulla carta con la maestre
sorridenti dell'asilo, ma rugosi spettri, lividi mausolei che ospitano migliaia di ignari
morti; gli alberi urbani hanno foglie malate, ingiallite, bucherellate, i loro fusti si
annodano stravolti verso il cielo.
Dietro i quadri luminosi degli ultimi piani, un volto sfiorito annaspa, mi fissa a lungo
interrogativo, poi riaccosta il sudario merlettato.
Speravo di averla dimenticata questa storia, speravo che il tempo avesse definitivamente
disfatto ogni ricordo di quei terribili giorni, che la memoria continuasse a proiettare
sullo schermo dei ricordi immagini solari di giochi, gelati e vacanze. Speravo che
serbasse quella diapositiva, lacera e oscura, negli archivi più remoti nella mente,
chiusa, finalmente, a doppia mandata.
Eppure il cancello è ancora là, due leoncini in pietra vigilano con la bocca spalancata
e la fitta trama di aste nere nasconde il cortile, il mio
Cerco con lo sguardo una, due volte, quel cognome che non oso pronunciare; nel citofono
smaltato in oro compaiono ora nomi nuovi, inauditi, è normale, è passato tanto tempo,
sono molti anni che ho cambiato residenza. Poi però gli occhi si fermano su quella
grafia, inizialmente inintelleggibile, poi chiara, senza possibilità di fraintendimento:
A-B-A-T-E. Famiglia Abate. Leggo più velocemente, è uno scherzo della vista, no, non
può essere. La scritta famiglia Abate scintilla da qualche minuto sul citofono,
elidendo la selva di consonanti e vocali, ora improvvisamente piccole, sfaldando gli altri
inutili nomi, tutti quei titoli, dottori, ragionieri, studi notarili. Dunque sono tornati,
dopo tanto tempo.
Sapevo che si erano trasferiti in montagna, lì la gente è taciturna, si fa i fatti
propri, quando t'incrocia per il sentiero al massimo si fa uno svelto segno della croce e
tira dritto, svanendo presto nella nebbia. Il diverso, il malato o, più crudelmente,
deforme viene visto con un occhio buono, comprensivo, quasi rispettoso, come se egli fosse
testimonianza tangibile della forza oscura della Natura, monito sibillino di un'energia
ferina e occulta ancora regnante nelle vallate
Il cigolìo sinistro e doloroso della sua bicicletta sulla ghiaia
ci scuoteva immediatamente dai nostri giochi. Il bambino che, ignaro, continuava il
commercio di figurine, veniva prontamente scosso con il gomito, quello di spalle avvisato
con un'allarmata alzata di sopracciglia, chi, resosi improvvisamente conto che qualcosa
non andava, guardava nel riflesso dei vetri della portineria, riconoscendo immediatamente
l'orribile sagoma appena annacquata dal sole, il faticoso e ciondolante incedere delle due
teste.
Là dove pochi minuti prima si rincorrevano urla, gridolini e risate calava un silenzio
gelido. I bulli del quartiere disserravano la presa sul piccolletto di turno, e con un
ghigno di sofferenza, si dileguavano per i mille rivoli, intercapedini che bucavano lo
scalcinato muro di cinta del nostro cortile. Sgusciavano via tutti e alla fine restavamo
in quattro o cinque nel cortile improvvisamente troppo grande e vuoto. Paolo, Giovanni,
Elvira e io guardavamo verso le finestre sperando, invano, che le madri ci richiamassero
dai terrazzi per la merenda, ci risvegliassero da quella paura che ci faceva restare lì,
impalati, come statuine di sale.
Cominciava guatandoci con volute circolari sempre più strette, poi ad un tratto, quando
il sole non allagava più giardini e facciate del palazzo, ma affogava dietro
l'autorimessa, lasciando una luce plumbea su tutto, i raggi delle sue ruote cessavano quel
vorticoso rincorrersi, i piedi si piantavano nella ghiaia sprofondando, e lui sorridendo
sussurrava: "posso giocare con voi?"
Luca Abate aveva la mia stessa età, e come mi avrebbero spiegato più in là i miei
genitori era "bicefalo", affetto da una malattia rarissima che nelle città non
si vede ormai più confinata in remote scuole speciali di montagna, dove, finalmente
liberati bimbi down e vecchi dementi, restano, da nessuno reclamati, bambini deformi,
frutti strani della Natura, amorevolmente accuditi dalle suore che non chiedono.
Le due teste nascevano da un unico collo, incollate per tutta la superficie dell'emisfero
sinistro, il cranio più piccolo, poco più di due pugni, era quasi calvo, il volto era un
intrico di pieghe e rughe, pelle cadente che ne alterava la fisionomia come una sorta di
yo-yo di carne imbolsita. Gli occhi perennemente chiusi, suggerivano l'immagine dormiente
di uno gnomo saggio. L'altra volto, quello con cui dialogavamo, era del tutto normale,
eppure con un'espressione enigmatica: alle volte come infastidita dalla presenza
dell'altro, altre come se fosse invece del tutto ignara che, attaccata al suo lobo,
esisteva un altro prolungamento di carne.
I suoi genitori lo facevano uscire di casa di rado. Qualche volta si avventuravano per le
vie cittadine per portarlo alle periodiche visite dagli specialisti della clinica,
coprivano pietosamente quella testa con un passamontagna. Gli avevano trovato persino un
precettore privato che gli forniva i primi rudimenti dell'abbecedario, sapendo, del resto,
forse sperando, che ogni pretesa di socializzazione si sarebbe scontrata il decimo anno
con la sua morte, così dicevano i dottori.
E invece no, la persistente letargia dell'altra testa lasciava sufficiente ossigeno per
nutrire quel corpo deforme, che continuava tenacemente a volere vivere contro tutto e
tutti.
A dodici anni forse lo avrebbero iscritto addirittura ad un istituto professionale
Ogni tanto li incontro ancora: davanti agli sportelli della banca,
mentre pigiano pulsanti sul registratore di cassa del supermercato, oppure mentre
sorseggiano un drink in un locale, abbracciati ad una bionda ebbri delle loro gloria. Si
materializzano con volti di impiegato, di cassiera o di ricco avvocato, eppure sono loro,
i miei compagni di gioco del cortile. Alcuni mi fissano per un istante, fingono di non
ricordare, poi bofonchiano un saluto e, imbarazzati, si lasciano inghiottire dalla flusso
della gente e dalle balenanti luci al neon. Anche Elvira, la cassiera, finge. Era una
delle mie più care amiche ma ostinatamente tace, non vuole ricordare; mentre scannerizza
la mia spesa sul nastro parla d'altro.
Tra tutti noi esiste un tacito accordo, mai siglato da parole del resto, di non rievocare
quel nome, eppure la tensione, un filo di paura scorre sottocutaneo e ci unisce ancora,
tutti, dopo tanti anni, malgrado tutto.
Ma loro non sanno la verità fino in fondo, non sanno e io vorrei urlarglielo in faccia,
quello che mi è successo davvero: nei corridoi delle cantine da solo, con Luca Abate.
Forse potrebbero aiutarmi, dirmi: "ti sei sbagliato", "è frutto della tua
fantasia" e darmi una pacca sulla spalla.
Poi però le parole mi muoiono in bocca, mi vergogno di questa debolezza, raduno
frettolosamente tutta la merce nel sacchetto, pago la spesa e mi avvio verso l'uscita ...
Un tardo pomeriggio di novembre qualcuno propose di giocare
a guardie e ladri.
Nel cortile brinato due gruppi di bambini si fronteggiavano: da una parte Elvira, Paolo e
io, i ladri, dall'altra Marco, Stefano e Luca Abate, le guardie.
Le regole prevedevano che la caccia si svolgesse entro la cinta muraria del palazzo, in un
piccolo mondo immaginario che includeva il giardinetto, i garages e le cantine. Ci bastava
poco, allora, per radunare tutta la nostra felicità infinita e proteggerla. Dopo gli
ultimi sommessi bisbiglii delle due squadre, qualcuno urlò "via!!"; in breve mi
ritrovai a correre al fianco di Elvira, cercando di seminare le guardie che stavano
scandendo ormai gli ultimi secondi di tempo prima di lanciarsi al nostro inseguimento.
Dalla sua bocca uscivano nuvolette di vapore e le siepi di bosso fuggivano veloci ai
nostri lati. Discendemmo la rampa che porta alle cantine, ma Elvira improvvisamente cadde
sbucciandosi una gamba, "vai!!" mi gridò "non ti fermare ...".
Dopo un attimo di esitazione mi lanciai nel labirinto oscuro delle cantine, un rifugio
sicuro. Le lampadine d'illuminazione erano rotte, non restava che attendere nella penombra
annaspando a tentoni negli angusti corridoi numerati. L'odore di vino e muffa era
nauseante, mi stordiva. Spifferi di umidità s'insinuavano dalle piccole grate delle
remote finestrelle. Il mondo lassù, sembrava non esistere. Come un cieco, a tentoni
tastavo le mattonelle umide del corridoio. Ad un tratto, dai fondali di quell'imbuto senza
fine, sentii dei passi, prima lievi, quasi esitanti, poi sempre più pesanti, vicini.
Trattenni il respiro per non farmi individuare, qualcuno si stava avvicinando. Mi
appiattii contro il muro, ma un braccio mi aveva già cinturato alla vita, era Luca Abate.
Dopo qualche secondo di silenzio, rotto solo dal nostro respiro, riuscii a mettere bene a
fuoco le due facce, livide, demoniache. Ad un tratto, con un sussulto, la faccia dormiente
si destò; con mio sommo raccapriccio, due occhi striati di sangue si spalancarono, le
labbra di entrambi i visi cominciarono a mormorarmi all'unisono una litania che all'inizio
non compresi, o che, forse, non volli comprendere.
"Tu lo sai che esiste il male? Tu lo sai che esiste il male?", non sapevo cosa
rispondere, terrorizzato, guardavo e speravo solo che fosse un brutto sogno, dal quale
destarmi presto. Improvvisamente i due volti smisero di parlare, si avventarono contro le
mie guance e iniziarono a mordermi violentemente, come bestie.
Il sangue mi colava sul piumino, s'insinuava caldo nel dolcevita, mi stava letteralmente
sbranando, le scarpe da tennis facevano cik ciak nella pozza del mio sangue colato, è
questo il ricordo più vivido. Finalmente mi ricossi e, divincolatomi dalla presa iniziai
a fuggire nel buio. Dietro Luca Abate urlava e m'inseguiva sbattendo violentemente le due
teste contro le mura, quasi fossero inutili propaggini. Correvo gettando scatole di
cartone, rovesciando strabordanti sacchi della spazzatura, chiudendo porte, cancelletti,
ma lui arrancava sempre dietro. Alla fine delle scale, le percorsi a perdifiato e
finalmente rividi la luce del sole morente, poi i miei amici sorridenti "che fine hai
fatto?" disse Elvira "E' da mezz'ora che ti cerchiamo, il gioco è finito è ora
di cena"
Le notti successive non riuscii più dormire, l'immagine di Luca mi tormentava. Solamente
dopo un mese, la vigilia di Natale, terminata la cena e aperti i regali, mi disposi
tranquillo a tuffarmi nelle calde coperte, quel terribile ricordo stava svanendo.
Abitavamo a pian terreno, la mia finestra si affacciava proprio sul cortile adesso invaso
dalla neve e illuminato dalle luminarie natalizie. Ad un tratto, non saprei dire che ore
della notte fossero, sentii grattare contro la finestra.
Mi giraii di colpo, e destatomi sul letto lo vidi di nuovo: Luca Abate, sorridente,
batteva piano la testa dormiente contro il cristallo facendolo tintinnare, mi invitava ad
uscire.
Mi rituffai nel letto, chiusi gli occhi e cominciai a inventarmi una preghiera tutta mia,
una preghiera per il diavolo e sue creature. Alla fine riuscii ad addormentarmi
Dunque è tornata, la famiglia Abate è tornata, dopo tanto tempo.
Alzo lo sguardo verso le finestre del quinto piano, la sua stanzetta è illuminata da una
fioca luce, si direbbe un'abat-jour, un'ombra danza lieve nella penombra, è lui, ne sono
certo.
Dunque è tornata, dopo tanto tempo. Nessuno crede a questa storia, neanche voi, che nella
luce azzurrina del computer scorrete queste pagine, mi credete, lo so: spegnerete il mare
celeste dello schermo e tornerete alla realtà, ai vostri impegni, lasciandomi nuovamente
solo.
Non vi biasimo, come potreste? Ma Luca Abate esiste ed è tornato, dopo tanto tempo.
Perché è giusto, è giusto che ognuno abbia il suo personale e privatissimo inferno.