La clinica
era linda e pulita, asettica, come una qualsiasi struttura sanitaria. Nella sala d'aspetto
c'erano sette donne. Una di loro era una ragazza vestita come una punk, attraente nella
sua bizzarria. Difficile stabilire se fosse maggiorenne oppure no. Le altre erano più o
meno tutte dai ventidue ai trent'anni, tranne una che ne aveva quaranta. Sebbene fosse una
donna ancora piacente, era difficile capire perchè volesse abortire; oltretutto, era
sposata: lo si notava dalla fede al dito.
Una delle altre, che sedeva alla sua sinistra, le si fece più vicina per porle una
domanda.
"Salve", disse imbarazzata, poichè non sapeva come muoversi in una tale
discussione.
L'altra, con una semplicità disarmante, rispose tranquilla al saluto.
"Come mai qui?", cominciò allora la donna più giovane, buttandola sul
generale. Difficile capire se lo facesse per curiosità o per vincere il nervoso.
Lei, di anni, ne aveva appena venticinque, la stessa età a cui sua madre l'aveva avuta, e
anche lei c'era cascata; ma una gravidanza spesso non va d'accordo con una carriera in uno
studio legale, quindi aveva deciso di abbandonare, per il momento, l'idea di diventare
mamma. È questo il genere di pensiero per il quale molte donne finiscono per morire sole
o quasi.
"Sono vedova", rispose allora la donna con la fede, "Mio marito è morto
due mesi fa, e io non me la sento di crescere un bambino da sola". Come risposta, nel
2002, era sensata.
In vena di moralismi, e sentendo che la tensione si stava allentando, la futura
avvocatessa ribattè. "Potrebbe cercare qualcuno che gli faccia da padre...".
"No!", fu categorica la donna, "Non mi piace: una famiglia è una famiglia
quando tutti sono DAVVERO parenti".
La giovane avrebbe voluto tirarle uno schiaffo, ma proprio in quel momento una donna uscì
dall'ambulatorio della dottoressa e la quarantenne si alzò.
"Mi scusi", disse inviperita, "Ma devo andare".
La dottoressa di anni ne aveva cinquanta, ed era in forma.
Divorziata, aveva due figli che facevano anche loro medicina. Ne portava orgogliosa la
foto sulla scrivania.
"Che bei ragazzi", disse la donna, "Deve andarne fiera".
"Lo sono", disse la dottoressa, "Ma qui siamo per parlare della sua prole,
signora". E guardandola meglio aggiunse: "Mi scusi, ma di quanti mesi è il
bambino?". Il suo tono era comprensivo, peculiarità fondamentale per svolgere un
compito delicato come quello. La morale comune rendeva la cosa sempre più difficile.
"Otto anni", rispose decisa la donna.
"Come scusi?", chiese la dottoressa convinta di non aver capito.
"Otto anni", disse di nuovo la donna.
"Signora, mi sta prendendo in giro?", "No, assolutamente: vede, due mesi fa
mio marito è morto, incidente stradale, ed era lui che si occupava di tutto, in casa. Ora
sono sola, e non riesco a gestirmi a causa del bambino. Sì, è diligente e mi aiuta, ma
sento che sarebbe meglio senza di lui, com'era un tempo quando ero giovane". La
dottoressa aveva la bocca aperta per le parole della donna, la frivolezza con cui
descriveva il suo "problema" avevano un che di odioso e allo stesso tempo
inquietante. Si rigirava una ciocca dei lunghi capelli rossi, mentre parlava.
"Signora", incominciò controllando la rabbia, "si rende conto di quello
che lei mi sta dicendo? Questo non è un aborto, questo è un omicidio!". Allora la
donna si alzò in piedi, adirata, buttandosi sopra la scrivania e impugnando l'affilato
tagliacarte, che, se usato con la dovuta forza, poteva rivelarsi un'arma impropria
alquanto pericolosa. Scivolò come una serpe alle spalle della donna ancora seduta,
puntadole la punta del tagliacarte alla giugolare. "Non sono abituata a sentirmi dire
di no", disse, "Quindi mi dica subito cosa debbo fare". Indecisa, la
dottoressa rispose, in lacrime, quando sentì la punta cominciare a perforare la carne.
"Secondo piano", biascicò, "Terza porta a destra".
Quel pomeriggio, alle quattro e mezza, da una scuola elementare, i
bambini stavano uscendo in ordine di età. Prima i più piccoli, poi i più grandi. L'uomo
in macchina dovette attendere che la lunga fila di bambini dai sei ai sette anni, per un
totale di ben otto classi, finissero tra le braccia dei loro genitori, prima di mettersi
al lavoro.
Per tutto quel tempo era stato in disparte, tant'è che alcune mamme lo avevano guardato
male. Poi fu il turno delle classi terze, e fu allora che il bimbo che aspettava fece
capolino dal portone.
Era alto per la sua età, portava i capelli castani a caschetto e teneva un triste
broncio. Era infatti scortato dalla maestra che lo consolava: anche quel giorno era
diventato triste per la morte del padre. L'uomo non tardò a mettersi al lavoro. Con balzo
felino fu sopra di loro, spingendo in disparte la maestra e stringendo il bambino con il
braccio sinistro in una morsa di ferro.
Ci fu un gran urlare di mamme e bambini per lo scatto improvviso dell'uomo. Una donna si
era messa a gridare "Un pazzo, è un pazzo!", proteggendo la sua bambina come
una chioccia e urlando tanto forte da farsi venire la gola rossa. A dire il vero, ci
assomigliava davvero ad una gallina.
Il bidello, un uomo massiccio, stava già accorrendo. Bisognava fare in fretta.
L'uomo tirò fuori una siringa piena di un liquido rosso: sangue di gruppo AB. Il bambino
era di gruppo 0 negativo. L'ago bucò il collo del bambino che aveva cominciato ad urlare
chiamando sua madre, disperato. Ci volle poco perchè il sangue finisse tutto nel suo
sistema circolatorio.
Morì in fretta, agglutinazione. Il sangue estraneo si unisce in grumi che bloccano le
arterie. Lasciando cadere la vittima con noncuranza, sicchè il bimbo si ruppe la testa
contro il marciapiede, l'uomo schivò il bidello.
"Ascoltate", disse mentre una folla di persone si stava radunando di fronte a
lui, "Sono un medico". Tirò fuori un tesserino che esibì come un distintivo.
"Ho solo eseguito un aborto regolare".
Si allontanò dalla gente che pareva già più serena. In macchina tirò fuori l'agenda e
fece una riga con la costosa biro nera sul nome del bimbo.
Ce n'erano altri tre per quel giorno. Giornata piena.
Duro il lavoro di medico, al serivizio della società.