Afferro il
coltello in cucina e vengo in sala da te.
Tu sei lì, davanti alla TV, svaccato e amorfo e muto, rapito dalle immagini, ignaro.
Ripenso alla mia vita sprecata al tuo grasso fianco, a tutta la merda ingoiata per il tuo
unico maschio piacere, ai miei sogni infranti.
Impossibile trattenermi oltre, impossibile tenere ancora nascosta la rabbia che mi ha
consumato il cuore, alimentata da secoli di sorridente sottomissione e silenzioso
sopportare.
Spazzo via ogni dubbio. Sopprimo ogni trappola morale.
Ti sono alle spalle, silenziosa, non vista, e mi scaglio su di te, ti colpisco
implacabile, conficcandomi nella tua schiena, troncando le tue vene, squartando il tuo
corpo ...
E grido. Grido forte. Grido.
Ti vedo cadere ma continuo a colpirti, ancora e ancora, continuo a colpirti, movimenti
puri e profondi, e continuo a colpirti, fino a che cessi di esistere, fino a quando resti
completamente immobile in un placido lago cremisi.
Non hai nemmeno fatto in tempo a gridare o a renderti conto di quello che stava
succedendo, vero?
Tutto il tuo potere non è servito a nulla infine.
Chi comanda adesso? Chi comanda?
Scuoto con un piede il centro del tuo egoistico piacere.
Nessuna reazione. Sei andato. Per sempre.
Ed io mi ritrovo completamente svuotata, libera di godere di questi momenti paradisiaci.
Ma il piacere dura poco: il rumore del cancello automatico che si sta aprendo mi annuncia
il tuo rientro, re arrogante sul tuo destriero a trazione integrale. Sei in perfetto
orario per la cena.
Afferro il bambolotto tagliuzzato da terra e lo nascondo nell'armadio dei vestiti da
stirare, l'armadio che non hai mai aperto, quello che non aprirai mai.
Torno in cucina in tempo per scolare la pasta. Sette minuti esatti, non un secondo di più
o di meno, se sbaglio tu ti incazzi come una bestia.
Nel nulla quasi totale del mio essere, il poco di affetto che provo ancora per te sembra
vasto e forte e vero: sono di nuovo io, la tua mogliettina perfetta.