La roba

Vinicio Previati, imprenditore in pensione, abitava nel centro storico di Ferrara in vicolo Mozzo Torcicoda.
Era un omone dal volto rubizzo con il naso venato di rosso che sembrava una grossa fragola. Non era mai stato un tipo socievole e l’età ne aveva accentuato il carattere irascibile.
Il vecchio, soffocato dal caldo, accese il climatizzatore e provò un benessere immediato.
Pranzò con un insalatone e bevve quasi un litro d’acqua, come gli aveva ordinato il dottore. All’acqua aggiunse una dose generosa di vino, ma questo particolare il medico non lo venne mai a sapere.
Quindi si spaparanzò sul divano e ascoltò il telegiornale.
L’anticiclone Lucifero imperversa in tutta l’Italia. In cima alla classifica delle città più calde c’è Ferrara con i suoi quarantacinque gradi”, annunciò lo speaker.
“Sti cazzi!”, commentò Vinicio a voce alta sbuffando.
Era Ferragosto. In giro non si vedeva anima viva. La gente stava in vacanza oppure rintanata in casa. Il caldo tropicale incendiava la pelle e il senno di chi aveva avuto la sventura di rimanere in città.
Al vecchio sembrò di udire una voce proveniente dal cortile. Abbassò il volume della tivù e vide un barbone, rosso in volto anche lui, ma a causa della vampata agostana.
“Vi ricordate di me?”, chiese l’uomo.
“Certo! Sei quel rompiscatole che è venuto a rovistare tra la mia roba”, rispose infastidito il padrone di casa.
“Era inverno, avevo freddo. Vi ho chiesto un vecchio cappotto tarlato, ma non avete avuto pietà di me”.
Il sanguigno Vinicio non sopportò le critiche del barbone. Aprì la finestra e gli tirò addosso un secchio d’acqua.
Il mendicante rise soddisfatto.
“Grazie signore! Questa doccia è benedetta. Buona giornata”.
Il vecchio guardò fuori e si rasserenò vedendo che l’uomo se n’era andato.
Previati era una specie di collezionista. Tutto ciò che gli era appartenuto ricordava un momento particolare della sua lunga esistenza.
Era affezionato alla sua roba e non riusciva a privarsi di nulla. Teneva addirittura tre grandi stanze, oltre il garage, colme di oggetti si ogni tipo.
Un museo vintage: mangiadischi, 33 e 45 giri, videocassette, radioline, i primi Ray-Ban, gli abiti hippy con le camicie flower power e i jeans a zappa d’elefante.
E poi cartoline della vecchia Ferrara e raccolte di fumetti: Zagor e Diabolik i suoi preferiti. Infine scatoloni di abiti smessi.
Tra questi c’era il logoro cappotto color cammello che il barbone gli aveva chiesto durante quella rigida giornata invernale.
Una mattina Vinicio, con l’aria condizionata a palla e la casa di nuovo piena di roba, si era messo a inscatolare altri indumenti: cravatte, camicie, calzini, un giubbotto di pelle che tanto aveva amato. Peccato che lui fosse aumentato di ben quattro taglie.
La moglie Franca, psicologa, lo aveva lasciato tanti anni prima a causa delle mille incomprensioni, definendolo beone egoista ossessivo compulsivo.
“Cresci!”, aveva urlato esasperata sbattendo la porta. Non era più tornata e Vinicio si era ben guardato dal richiamarla.
I figli della coppia avevano ereditato l’azienda vinicola del padre e si stavano dimostrando degni successori.
Franca si era traferita in un casale ristrutturato per stare vicina a loro e godersi la campagna.
I ricordi scorrevano veloci nella mente del vecchio. La tivù trasmetteva l’ennesima replica de La signora in giallo, ma Vinicio, dopo la musichetta iniziale si era addormentato come un sasso e russava sul divano.
Lo squillare del telefono lo ridestò.
L’uomo sussultò e si affrettò a rispondere.
“Ciao Clemente! Si gioca a carte? Certo che sono dei vostri. Ci vediamo al club alle otto”, riattaccò soddisfatto pregustando il tanto agognato sabato sera. Avrebbe indossato i calzoni blu e la camicia di seta verde. Gli era costata un occhio, ma ne era valsa la pena: era leggera e aveva il colore del denaro. Vinicio, scaramantico, riteneva che quell’indumento gli avrebbe portato fortuna.
Fece un altro sonnellino e quando si svegliò erano le 18 e 30. Mise la griglia sul fuoco e lasciò cuocere una salsiccia e un paio di wurstel.
Mangiò di gusto, accompagnando la carne a mezza coppia di pane e a due bicchieri di corposo vino rosso. Poi preparò la moka e attese con gioia il dolce gorgoglio. Il profumo del caffè gli inebriava le narici. Dopo una doccia rinfrescante indossò gli abiti stesi sul letto. Era il momento di incamminarsi verso il club.
La serata trascorse lieta e Vinicio riuscì a vincere ben duecento euro. Erano le tre del mattino quando fece ritorno a casa spalmandosi subito a letto. Il rumore di un soprammobile infranto sul pavimento lo svegliò bruscamente. Il vecchio sedette sul letto. Afferrò il cellulare a mo’ di pila e si addentrò a perlustrare la casa, fino a imbattersi in qualcosa di puzzolente che a momenti gli franava addosso.
Vinicio lo afferrò per la maglia e lo sbatté contro il muro, poi accese la luce e riconobbe l’intruso.
“Che ci fai qui, brutto straccione?”, urlò digrignando i denti.
Sotto la folta barba e il sudiciume brillavano occhi vivaci e un corpo giovane e scattante. Il mendicante sgattaiolò via, quindi tornò alla carica gettandosi sul vecchio che, in men che non si dica, si ritrovò steso sul letto, legato come un salame.
Il barbone era seduto su una sedia e fissava sorridente il prigioniero.
Il vecchio deglutì amaro e si fece umile al fine di trattare con il rapitore.
“Cosa vuoi, figliolo?”, gli chiese.
“Vi avevo chiesto quel vecchio cappotto, me lo avete negato”.
“Hai ragione. Non ho agito bene. Mi farò perdonare. Liberami e ti darò tutto ciò che vuoi”.
Il giovane tacque pensieroso.

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“Come ti chiami?”.
“Non credo v’importi, signore”.
“Io mi chiamo Vinicio”.
“Lo so”, replicò asciutto l’interlocutore. Vide i due biglietti da cento, la vincita del poker sul comò e se li mise in tasca. Quindi chiese al padrone di casa la combinazione della cassaforte.
Il clochard invasore aveva il sorriso stampigliato sul viso, ma i grandi occhi scuri e maligni fecero rabbrividire il vecchio. Capì che ne andava della sua vita e cedette.
Il giovane si affrettò a digitare i numeri che Vinicio gli aveva dettato ritrovandosi davanti a un luccichio di gioielli e una bella mazzetta di soldi.
Prese una capiente borsa nera dall’armadio e vi ficcò dentro tutte le banconote. L’oro lo lasciò al proprietario. Non si fidava. In caso di vendita avrebbero potuto risalire a lui.
Prima di andarsene salutò Vinicio.
“Buon riposo, signore. Scusate se ho turbato il vostro sonno. State sicuro: non mi rivedrete mai più”.
Continuava a mantenere quel ghigno beffardo sul volto.
Il vecchio, sentendosi umiliato, si lasciò scappare parole dure.
“Brutto sacco di pulci. Che tu sia maledetto!”, urlò stizzito.
“Ma signore, io desideravo solo quel vecchio cappotto tarlato. Tremavo dal freddo e voi me lo avete negato. Avrei potuto soccombere a causa del gelo. Ci avete pensato?”.
“Non era roba tua!”, esclamò Vinicio Previati.
Queste parole risuonarono crudeli nella mente del barbone. Aveva quasi guadagnato l’uscita, ma tornò sui suoi passi. Fissò a lungo con odio l’essere più tirchio che gli fosse mai capitato di conoscere e si recò nelle stanze dove giacevano gli scatoloni. Li aprì con un coltellino buttando all’aria ogni cosa.
“Che succede?”, chiese Vinicio allarmato.
“Nulla d’importante, signore”, rispose il giovane ridendo di gusto.
Quindi tornò dal vecchio legato al letto e lo coprì a strati con tre plaid, coperte di lana, un paio di vecchi piumoni. E poi roba su roba: maglioni, cardigan, gilet, giacche, giubbotti e una pila di vecchi cappotti sopra i quali svettava quello tarmato color cammello...
“Che diavolo ti prende? Sei impazzito?”.
“No, signore. Mi sembrava carino scaldarvi con i vostri vecchi indumenti. Voi mi avete condannato al freddo e io ricambio facendovi patire un caldo infernale”.
Vinicio sudava vistosamente. Gocce di sudore e paura gli imperlavano la fronte e colavano sul volto. Sembrava una statua di cera.
“Tra poco tornerà mia moglie”.
“Non credo”.
“Ha passato qualche giorno nella nostra casa di campagna e sta per tornare”.
“Siete divorziati da quindici anni, non ricorda?”.
Vinicio impallidì.
“I miei figli telefoneranno verso le otto. Lo fanno ogni domenica”.
“La verità è che siete solo. Avete rotto i ponti con l’intera famiglia e il vostro amico Clemente non telefonerà fino a sabato prossimo. Bel gioco il poker”.
L’uomo, atterrito, provò a urlare ma si ritrovò con la bocca tappata dal nastro adesivo.
Il giovane girò la manopola del riscaldamento al massimo, prima di rivolgere un’ultima occhiata al prigioniero che, nel frattempo era svenuto.
Accarezzò la morbida e capiente borsa di pelle nera, se la mise a tracolla e uscì soddisfatto in quella notte d’agosto mentre si lasciava l’inferno alle spalle.

Patrizia Benetti



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