di Clive Barker - pagine 242 - euro 16,50 - Castelvecchi Editore
Definire Clive Barker uno “scrittore horror” è come chiamare i
Beatles una “garage band”. Con queste parole, Quentin Tarantino,
nella quarta di copertina, descrive il primo “Libro di sangue”; di nuovo
nelle librerie da marzo 2011, a opera della Castelvecchi Editore.
E mai parole sembrano essere più azzeccate, a lettura ultimata, per una
raccolta di racconti a cui, in questi tempi di facili etichette, la
definizione “horror” va decisamente stretta.
I “Books of blood” sono arrivati in Italia a metà anni Ottanta, tempi in
cui Stephen King indicava in Barker il suo successore, nonché il
futuro dell’horror. E forse, l’autore inglese, non avrà mantenuto
queste premesse, per lo meno per ciò che riguarda l’horror, ma non v’è
dubbio alcuno sull’importanza che la serie dei suoi libri di sangue ha
avuto per la narrativa di genere e per la sua espressione in forma di
“racconto”.
La riedizione della Castelvecchi, dunque, è quanto mai benvenuta e
apprezzata, e se si può discutere su fattori secondari come la copertina
o la scelta del sottotitolo, ben poco c’è da dire sulla qualità del
libro, che vede i sei racconti del fu “Infernalia” tradotti dallo
“storico” Tullio Dobner e editi in una piacevole brossura con alette.
Ma perché è così importante che un’opera che oramai si poteva trovare
solo sui banchetti dell’usato ringiovanisca?
Per il bene della narrativa di genere, prima di tutto.
In questi sei racconti, Barker, con una prosa asciutta, rapida ed
espressiva, riesce a costruire l’orrore del paranormale rimanendo per lo
più con i piedi ben piantati nella realtà, rendendolo plausibile e
raccapricciante, senza mai concedersi a derive di splatter o violenza
gratuiti.
Le ambientazioni e la psicologia dei personaggi, unite a una struttura
narrativa pressochè perfetta, sono gli elementi che, prima ancora
dell’horror, rendono i racconti avvolgenti, incisivi e perturbanti. Il
raccontare di Barker è magnetico. È difficile riuscire a smettere di
leggere, prima dell’ultima parola, così come è difficile dimenticarsi di
ciò che si è appena letto.
Un racconto come “In collina, le città” che chiude il libro, affonda le
mani nel lettore e vi rimane impigliato; “Mai dire maiale” è frenetico e
dirompente fino a far rimanere a bocca aperta; “Macelleria mobile di
mezzanotte” trascina nelle pagine e lascia, letteralmente, senza parole.
Anche il racconto più breve, in apertura, che apre la raccolta e dà il
titolo all’intera serie, non è certo un pezzo originale, ma ricorda con
chiarezza, semmai fosse necessario, quanto sia importante il come raccontare, assieme al cosa.
Da non dimenticare, poi, il perfetto connubio tra le storie di Barker e
la forma racconto. Le sue trame, il suo perturbante, la suspense e
soprattutto, la sorpresa, non potrebbero essere altrettanto incisivi in
un romanzo. I libri di sangue indicano come la forma breve possa dare
quanto e più di un romanzo.
Ben vengano, quindi, operazioni come questa della Castelvecchi, in un
panorama narrativo di genere sempre più invaso e soffocato da Vampiri
emo clonati dalle saghe di successo.
L’opera di Barker è imprescindibile per un appassionato d’orrore e/o di
racconti, ma riesce a dare molto anche a un lettore che, semplicemente,
apprezza la buona narrativa.
Girata l’ultima pagina, l’immediato pensiero è una speranza: che la
ripubblicazione dei libri di sangue continui al più presto.
Voto: 9
[Gelostellato]
Incipit
I morti hanno vie di comunicazione.
Percorrono le ignote distese dietro la nostra vita, animate dal traffico
interminabile di anime dipartite, nell’infallibile procedere di treni
fantasma, di vagoni di sogno. Capita di udire le vibrazioni e il tumulto
del loro passaggio nei punti di rottura del mondo, attraverso le crepe
aperte da atti di crudeltà, violenza e depravazione. Si può scorgere il
carico di quei convogli, i morti vaganti, quando il cuore è vicino a
scoppiare e si manifestano allora visioni che meglio sarebbe tenere
celate. Ci sono autostrade con tanto di segnaletica, viadotti e piazzole
di sosta. Ci sono caselli e svincoli.
È in corrispondenza di queste intersezioni, dove si incrociano e si
mescolano le folle dei morti, che propaggini di questi itinerari segreti
tracimano talvolta nel nostro mondo. Il traffico è intenso ai crocicchi,
dove più stridule risuonano le voci dei morti. Lì le barriere che
separano una realtà da quella attigua si sono assottigliate per il
passaggio di innumerevoli piedi.
Uno di questi incroci tra le vie di comunicazione dei morti si trovava
al numero 65 di Tollington Place. Era una qualsiasi.
Casetta con la facciata di mattoni in falso stile georgiano, del tutto
insignificante: una vecchia casa qualunque, spogliata della
pretenziosità che aveva potuto vantare in passato, vuota da almeno un
decennio.
Non era l’umidità crescente a tenere gli aspiranti inquilini lontani dal
numero 65. Non erano le muffe della cantina o il cedimento che aveva
aperto nella facciata della casa una crepa dal gradino dell’ingresso su
fino alla grondaia, non era il rumore del viavai. Al piano di sopra il
fragore di quel traffico non cessava mai. Screpolava l’intonaco dei muri
e deformava le travi. Faceva tintinnare le finestre. Faceva tintinnare
anche la mente. La casa al numero civico 65 di Tollington Place era
stregata e nessuno poteva risiedervi a lungo senza conoscere la follia.